Forza, siamo in ritardo!

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Tre sorelle, otto giorni, 6.300 chilometri. Era il viaggio della vita, una decisione spontanea di fare le valigie e scambiare il cupo inverno di Sydney con il verde lussureggiante, la piacevole umidità e alcune delle attrazioni più eccezionali del Sud-Est asiatico. La destinazione era Singapore e io e le mie sorelle eravamo pronte a una vacanza intensa.

Siamo andate in bicicletta lungo la riva della città, abbiamo cenato in cima a Marina Bay Sands, ci siamo sedute ipnotizzate dallo spettacolo di luci di Gardens by the Bay e abbiamo fatto shopping finché i nostri conti in banca non hanno detto “basta, dai”. Abbiamo bevuto succo d’arancia appena spremuto dai distributori automatici, mangiato alcuni dei migliori piatti vegetariani di Singapore e raschiato la polpa da noci di cocco fresche quasi ogni giorno.

Sembra tutto idilliaco (e per molti versi lo era) ma c’era qualcosa che non andava. In tutto questo, ho provato un senso di impazienza e di insoddisfazione, come se avessi prurito dentro.

 

Una lezione importante

Sono sempre stata una persona molto tesa. In quanto sorella maggiore e stereotipo di “vincente”, nella mia vita adulta ho dovuto lavorare molto sulla mia tendenza ad avere fretta. I miei progressi in questo campo sono una forte prova dell’opera di Dio nella mia vita e spesso parlo del movimento “slow living” e delle implicazioni spirituali della cultura della fretta nei miei scritti e nella mia presenza sui social.

Ma devo fare una confessione: sono un’impostora.

Uno dei motivi per cui amo viaggiare sono le profonde lezioni che si imparano su se stessi. E questa mi ha colpito in modo particolare.

Mentre mi trovavo all’angolo di una strada nel bel mezzo di Chinatown, circondata dal profumo di durian e di torta al pandan appena sfornata, mi sono resa conto che, nonostante la mia crescita filosofica nel campo della vita lenta, ero sempre la stessa, imperfetta umana: perché lì, indietro di 20 metri rispetto a me, c’erano le mie sorelle. Per quella che sembrava la cinquantesima volta quel giorno, camminavo davanti a loro, impaziente di raggiungere la nostra prossima meta e dovendo aspettare che mi raggiungessero.

Sentendomi frustrata, avevo controllato l’orologio: le due e un quarto. Se non avessimo visitato i mercati degli ambulanti adesso, non avremmo avuto tempo per… per…

Per cosa?

Non avendo nessun posto dove andare e nessuna aspettativa su di noi, avevo fretta. E in quel momento mi sono resa conto dell’irrefrenabile senso di urgenza di non fare assolutamente nulla.

 

Un comportamento da imparare

Non è un segreto che oggi il nostro mondo sia più connesso e frenetico che mai. Il multitasking, le attività collaterali, l’accumulo di abitudini e la cultura della produttività sono tutti elogiati, mentre la parola “lento” è diffamata e sinonimo di noioso, inutile, pigro o addirittura intellettualmente sfiduciato.

La maggior parte di noi non è consapevole del profondo impatto che questa narrazione ha sulle nostre percezioni, valori, aspettative e processi di pensiero.

Penso a mio padre, che spesso ci faceva uscire di corsa dalla porta per andare in chiesa il sabato (ironicamente il nostro “giorno di riposo”), ricordandoci che eravamo “in ritardo” per partire per le vacanze, e che ancora oggi ama camminare in testa al gruppo. È chiaro che la mela non cade lontano dall’albero.

Ma a prescindere dal luogo in cui il comportamento viene appreso (attraverso la famiglia, gli amici, gli insegnanti, i libri, i film, i social) tutti noi siamo stati ingannati. Dai noodles istantanei alla messaggistica istantanea, ci hanno fatto credere che la fretta ci porterà al successo e migliorerà la qualità della nostra vita. Ma in realtà, avere fretta non ci porta da nessuna parte più velocemente. Ecco la mia esperienza personale:

La fretta di finire la laurea non mi ha aiutato a “fare carriera”, ma mi ha privato di amicizie e di una ricca esperienza universitaria.

La fretta di sposarmi non mi ha portato all’altare più velocemente, ma mi ha fatto rimanere troppo a lungo nelle relazioni sbagliate.

La fretta di costruire la mia attività non mi ha fatto avere più successo, ma mi ha fatto trascurare la mia salute.

E ora, la fretta di vedere tutto a Singapore mi ha fatto trascurare il vero motivo per cui ero lì: trascorrere del tempo di qualità con le mie sorelle.

 

E quindi… qual è la soluzione?

Potreste dire: “Beh, non puoi semplicemente camminare più lentamente?”. Sebbene questo sia un argomento teoricamente valido, il problema è molto più profondo. In fondo, si tratta di una conversazione sulla compassione e sulla vergogna.

Ciò che mi disturba di più del mio viaggio a Singapore è l’ironia della sorte. Andando lì, ero perfettamente consapevole che questa vacanza era un’opportunità unica per me e le mie sorelle: tutte in grado di prendersi del tempo libero dal lavoro, tutte ancora senza figli, tutte in salute. Dovevo sfruttare al massimo ogni momento. Eppure, questa mentalità mi ha portato a scambiare le cose che potevo sostituire (visite turistiche, buon cibo, oggetti materiali) con qualcosa che non potevo. Come si è scoperto, l’attività è un pessimo compromesso per l’intimità.

Rendermene conto mi ha fatto entrare in una spirale di vergogna e di pensieri poco utili: “Essere così rigidi ti rende una persona orribile”, “Non riuscirai mai a superarlo, è quello che sei” e, peggio ancora, “Dio non ti ha davvero cambiata, sei una falsa cristiana”.

Nella vita, una delle cose più difficili che possiamo affrontare è la tensione tra il miglioramento di sé e l’autocompassione. Da un lato, dobbiamo essere compassionevoli quando non riusciamo a raggiungere un obiettivo o uno standard (dopo tutto, odiare noi stessi non porta mai a un cambiamento duraturo), ma non vogliamo nemmeno essere così compassionevoli da perdere la motivazione a cambiare.

Per fortuna, Gesù offre una soluzione.

 

Una risposta biblica

La mia esperienza mi ricorda una famosa storia biblica sulla fretta: quella di Maria e Marta (cfr. Luca 10). Maria siede ai piedi di Gesù, mentre Marta corre in giro ansiosa, mostrando ospitalità ai suoi ospiti.

In quell’angolo di strada di Singapore mi sono sentita come Marta.

Proprio come io stavo vivendo un’esperienza unica nella vita, Marta aveva Gesù in casa sua! Sia io sia Marta abbiamo sentito il bisogno di prendere il comando. Sia io sia Marta volevamo massimizzare l’esperienza per tutti. Eppure, sia io sia Marta abbiamo mancato completamente il punto.

Ho sempre condiviso l’indaffaramento di Marta e ho letto la risposta di Gesù come un rimprovero: “Maria ha ragione, Marta ha torto, fine della storia”. Ma guardando più da vicino il testo, la risposta di Gesù è in realtà una risposta di compassione.

Nelle lingue semitiche, la ripetizione del nome di qualcuno (in questo caso, “Marta, Marta” – cfr. versetto 41) è vista come compassionevole. Gesù non stava rimproverando Marta. Infatti, la parola greca usata per descrivere la sua ospitalità è diakoneo, che è usata positivamente in tutti i luoghi in cui compare nella Bibbia.

Gesù non stava dicendo che il lavoro di Marta non fosse utile o importante, o che essere responsabili, organizzati, efficienti o prendere il comando sia intrinsecamente negativo. Stava invece evidenziando la nostra tendenza umana a dare priorità a ciò che è importante rispetto a ciò che è più importante: lui.

Gesù stava ricordando a Marta che il suo valore non dipendeva dal suo lavoro; il suo valore non era determinato dall’ospitalità, dall’efficienza o dalla produzione. Si trattava di un valore intrinseco. Come figlia di Dio, infinitamente amata e creata a sua immagine, non aveva nulla da dimostrare. Proprio come Maria, le era permesso (senza correre rischi) di sedersi ai piedi di Gesù e di viversi semplicemente il momento.

Nel nostro mondo moderno, in cui il lavoro equivale al valore e in cui gli impegni costruiscono persone indaffarate, questa realtà che Gesù ci offre può sembrare sconosciuta e persino scomoda. Con il pretesto “dell’urgenza”, potremmo dare priorità al lavoro rispetto alla famiglia, al servizio rispetto alla spiritualità, alle pulizie rispetto ai legami e, nel mio caso, al visitare Singapore rispetto al tempo di qualità con le mie sorelle… il tutto solo per soddisfare il disagio delle nostre anime indaffarate.

Ecco le parole di uno dei miei autori preferiti, John Mark Comer: “Dobbiamo imparare i ritmi non forzati della grazia”. Nel nostro mondo moderno, il riposo è un atto di resistenza contro i poteri e le strutture sociali esistenti. Non è qualcosa che viene facilmente o naturalmente. E questo va bene.

Se Gesù può mostrare compassione a Marta, una donna frettolosa e ansiosa che cerca di dimostrare il suo valore e di fare la cosa giusta, allora anche noi dovremmo mostrare compassione a noi stessi e agli altri. Sebbene a volte lo trovi impegnativo, mi faccio anche coraggio con questa promessa: “E ho questa fiducia: che colui che ha cominciato in voi un’opera buona, la condurrà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù” (Filippesi 1:6).

Dopo tutto, avere fretta di smettere di avere fretta non ha molto senso. Perciò mi affido alla tempistica di Dio.

 

 

Di Maryellen Hacko, artista e illustratrice che vive a Sydney, in Australia

Fonte: https://signsofthetimes.org.au/2023/10/hurry-up-were-late/

Traduzione: Tiziana Calà

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