PRISCILLE BARGIBANT

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Priscille-BargibantSono nata in una famiglia avventista. Mio padre, pastore avventista per 20 anni, mi ha battezzato quando avevo 15 anni, nella chiesa del Campus di Collonges-sous-Salève. Poco dopo, ho mandato tutto all’aria. Tutto! La comunità avventista e la mia fede in Dio. Con il mio ritiro, capii che non avevo effettuato un passaggio dalla fede dei miei genitori alla mia. Spazzai via tutto in modo drastico. Ho incontrato mio marito a vent’anni. Non era per niente impegnato nella chiesa, né in qualche comunità religiosa. Ho vissuto con mio marito per 10-12 anni senza mai mettere piede in una chiesa, al contrario, essendo contro la chiesa per le ingiustizie e delle cose che avevo vissuto. Tutto ciò accompagnato dall’ira di mio marito contro tutti quei religiosi che lui trovava così ipocriti! Ma in realtà, nel fondo del mio cuore, avevo questa fede inappagata, questo bisogno di dare un senso alla mia vita, un grande vuoto che non sapevo come riempire. Più tardi, ho ricevuto una chiamata dal Campus per essere insegnante di musica nella scuola. Accettai, visto che non abitavo lontano dal campus. Avevo iscritto mio figlio a questa scuola, e poco a poco mi stavo riavvicinando. La prima volta che ho rimesso piede in chiesa fu in occasione del “Regards 2000”, conferenze di Thierry Lenoir. Ricordo che queste conferenze raccontavano l’evangelo, solo l’evangelo, senza parlare della chiesa avventista, senza teologia. Una sera, Thierry Lenoir aveva fatto alzare l’assemblea e durante la preghiera mi misi a piangere, mi sono detta “questo è tutto ciò che mi manca da quando mi sono allontanata dalla chiesa”. Mi resi conto che la fede era tutt’altra cosa che il tram-tram della chiesa, et che questo poteva colmare il bisogno che sentivo nella mia vita. Ci sono comunque voluti degli anni. Io e mio marito abbiamo iniziato a studiare la Bibbia. La grande svolta che mi ha fatto passare da una fede personale a una fede quotidiana molto presente, è stata il nostro viaggio. Nel 2010 io, mio marito e i miei figli siamo andati a fare il giro del mondo per un anno. Abbiamo vissuto delle esperienze straordinarie con Dio: questa è stata l’ultimo radicale svolta. Era evidente che Dio era presente ogni giorno nella mia vita. Tornando dal viaggio, mi sono detta “ok, adesso non farò più resistenza, mi lascio andare”. Sono diventata cappellana in carcere contro ogni attesa, perché non era questo ciò che volevo fare.

 

Wow ! Hai dovuto lasciare delle cose per ritornare alla fede. Alcuni esempi pratici?

Ho lasciato perdere l’idea che fossi il padrone della mia vita. Sono molto organizzata, mi piace avere tutto sotto controllo. Ho smesso. È stato l’abbandono più difficile della mia vita, che devo spesso rinnovare: non posso controllare niente. Quando ho un appuntamento che alla fine viene annullato, prima avrei fatto di tutto affinché avesse luogo lo stesso. Ora mi dico “ok, succederà qualcos’altro, non era ancora il momento, non era per me, etc.”. Non sono attaccata a niente. Quando siamo partiti per fare il giro del mondo, abbiamo dimissionato dai nostri lavori. Pensavo che dopo tutto, sarei stata contenta. Ciò che è cambiato, e ci tengo a dirlo, è il motore. Ho spento il vecchio motore per accenderne uno nuovo.

 

Tu svolgi ormai un ministero nelle carceri. Come ci sei arrivata?

Una volta tornata dal giro del mondo, ripresi il mio posto di musicista per gli ospedali universitari di Ginevra. La prima domenica in cui sarei dovuta andare all’ospedale a suonare, ero un po’ distratta e mentre guidavo girai a destra invece di girare a sinistra. Mi ritrovai davanti al carcere e rimasi meravigliata. Ero molto sorpresa di sentire quell’emozione. Con la fede che avevo in quel momento, pregai per i detenuti. Dissi “Se potessi fare qualcosa per loro..”. Qualche settimana dopo, stavo prendendo un caffè con il cappellano del carcere che sarebbe andato via perché era in depressione. Parlando, mi disse “Abbiamo bisogno di te in carcere”. Una cosa tira l’altra, e mi presentò il presidente della cappellania, feci dei corsi di formazione e 4-5 mesi dopo il mio ritorno dal giro del mondo cominciai a lavorare come cappellana in carcere. Ho potuto constatare che quando lascio fare, succedono delle cose, ma non quelle che io avevo previsto.

 

Raccontaci una giornata tipo come cappellano in carcere.

Innanzitutto, in carcere non esiste la figura del cappellano a tempo pieno poiché è difficile a livello emotivo e psicologico. Lavorando al 30%, vado due giorni alla settimana: dalle 7.30 alle 11:30 e dalle 13:00 alle 16:30 incontro i detenuti che hanno chiesto un appuntamento con un cappellano. Io non impongo niente, ed è perfetto per me, perché ho delle brutte esperienze con il fatto di imporsi. Il detenuto scrive una lettera al cappellano esprimendo il desiderio di vederlo, e quindi io lo ricevo in un minuscolo ufficio al centro del carcere. Le guardie vanno a prenderlo nella sua cella, lo portano nella “mia piccola cella” e passo un’ora da sola con lui.

 

Senza guardie, senza nessun altro con voi?

Senza guardie e senza nessuno. Sono in un piccolo ufficio che non è nemmeno 2 metri per 2. Passo un’ora da sola con lui: a volte di più, a volte meno. Si passa del tempo insieme fino a quando questi non esce di prigione: a volte può essere 3,4,5 anni, altre volte solo qualche mese. Il mio primo approccio non è quello di aprire la Bibbia con i detenuti. È quello di cercare con loro il senso che vogliono dare alla loro vita e le motivazioni. Quando mi chiedono il senso che io voglio dare alla mia vita, glielo dico. Ma io non mi impongo mai. Il mio scopo principale è quello di amarli così come sono, lì dove si trovano.

 

Avresti degli esempi da farci di persone che hanno scoperto la fede grazie a questi incontri da te proposti in carcere?

Certamente. C’è un detenuto che per un anno non mi ha mai chiesto niente riguardo la mia fede. Era un criminale, e mi ha raccontato molte cose della sua vita. Ogni volta mi chiedeva se gli potevo dare delle sigarette. Era l’unica cosa che potevo fare per lui. Io che non fumo e che sono assolutamente contraria alle sigarette, mi sono ritrovata a dargli dei pacchetti interi. L’ho fatto per circa un anno e mezzo. Un giorno mi chiede cosa mi aveva spinto ad andare lì in carcere, e glielo dissi. Si mise a piangere, pensò che fosse una cosa magnifica e disse “voglio conoscere questo Dio”. Solo in quel momento abbiamo aperto la Bibbia. Abbiamo intrapreso un percorso stupendo. Una volta uscito di prigione, non l’ho mai più rivisto, ma so che il mio seme è stato piantato.

C’è anche un detenuto che mi ha raccontato di essere in prigione per 18 rapine. Il giorno in cui lo misero in cella si gettò per terra e si mise a piangere senza freni. Tre giorni dopo, si convinse che doveva chiedere una Bibbia in biblioteca. Disse “era come se una vocina dentro di me mi dicesse ‘chiedi una Bibbia in biblioteca’”. Si mise a leggere quella Bibbia per 14 mesi, dalla A alla Z. Veniva con quella Bibbia in cappellania: era tutta stropicciata, e la conosceva dall’inizio alla fine. Durante settimane e settimane mi spiegò tutto quello che aveva capito: l’amore di Gesù, la seconda venuta, l’Antico Testamento, l’Evangelo, i nuovi comandamenti, quelli antichi, il sabato, tutto. Era straordinario! Un giorno mi disse “Lei ha già letto l’Apocalisse? Forse mi sembrerò un pazzo, ma credo che siamo nel tempo della fine”, e mi parlò della chiesa di Laodicea. Un ragazzo della strana, che sapeva a malapena leggere! Dissi fra me e me che non c’era bisogno di studiare teologia: quando lo Spirito insegna, va dritto al cuore. È stata una magnifica esperienza.

 

Come affronti le giornate pesanti?

Effettivamente, è difficile a livello emotivo. Soprattutto perché sono una persona empatica, come una spugna. Ma so dove ricaricarmi: in un primo momento nella preghiera, ma poi ho anche bisogno ogni di almeno due ore da sola e in silenzio. Cammino nella natura, mi occupo delle mie rose, o non faccio niente. E spesso piango, lo ammetto, perché mi rattristo per tutto ciò che ascolto, per quella sofferenza, e perché spesso mi rendo conto che lì in prigione ci sono finite le persone sbagliate. Quando sento la storia di qualcuno che ha spinto un criminale ad agire, mi dico “Gesù è venuto per loro, questo è sicuro”. Mi prendo del tempo per ascoltare la voce di Dio nel mio cuore, per lasciare tutto questo a Lui, e per pregare per ognuno di loro. Insomma, ho bisogno di tempo.

 

La tua famiglia non ha timore nel sapere che sei da sola in carcere con dei criminali? Ricordiamo di quella accompagnatrice uscita con un detenuto che fu uccisa.

Sì, è successo da noi. Per la cronaca, quel detenuto voleva vedermi, ma non ho mai voluto riceverlo. Era ciò che sentivo nel mio cuore e per questo sono stata molto colpita da quella storia. Sono già passati cinque anni da quando faccio questo, e sono molto toccata. Soprattutto perché ricevo molti detenuti in custodia cautelare, persone che nessuno vuole vedere perché considerati pericolosi. Sento una tensione dentro di me, sono sempre all’erta, ma anche fiduciosa. È sempre un po’ un controsenso. Da un lato sono profondamente fiduciosa, ma dall’altro sento che sono comunque umana.

 

Che Dio continui a benedirti nel tuo ministero. E sappi che la FSRT ti sostiene.

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