Preghiere al Dio nascosto

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Nessuno ha mai visto Dio, ma Colui che lo conosceva prima che nascesse su questa terra ci ha insegnato a rivolgerci a Lui nella preghiera.

 

Quando un cristiano si chiede se ha senso pregare, la prima e più eloquente risposta viene naturale: Gesù Cristo ci ha insegnato a pregare. Nessuno sospetterebbe che Cristo stia dicendo alle persone di sprecare il proprio tempo. Se così fosse, Gesù avrebbe potuto benedire i rumorosi schemi della tradizione che eccellevano in surrogati di preghiera e che richiedevano molto tempo. La preghiera avrebbe dovuto solo essere continuata come prima: esclusivamente pubblica, il più forte possibile, un mucchio di parole ripetute fino a perdere il loro significato. Ma il Maestro ha insistito su uno schema di preghiera completamente opposto rispetto al trattare Dio come uno spettatore che deve restare impressionato. “Ma tu, quando preghi”, disse il Salvatore, “entra nella tua cameretta e, chiusa la porta, rivolgi la preghiera al Padre tuo che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, te ne darà la ricompensa” (Matteo 6:6). Gesù non mente.

“Certo. Dillo agli ebrei durante l’Olocausto!”. Quante conversazioni sul significato della preghiera devono essere nate di fronte a un argomento così forte contro la possibilità di stabilire un dialogo con Dio? “Dov’è Dio quando soffro?” è una grande domanda, un concentrato di tutte le lacrime che saranno scivolate sui volti dei vari popoli nel corso della storia. Molti tornano ad Auschwitz sperando di trovare la mappa del nascondiglio di Dio oppure una tomba comune in cui spingere una volta per tutte la loro fede. Negli anni del dopoguerra, anche tra coloro che non hanno perso un capello, molti hanno perseguitato il clero, chiedendo: “Perché, Padre, perché Dio non ha protetto gli ebrei?”. Un rabbino americano di nome Reeve Robert Brenner, pensò invece di rivolgere a qualcun altro le domande su Dio e sull’Olocausto.

 

Solo chi soffre

Nel libro “The Faith and Doubt of Holocaust Survivors”, Brenner racconta le sue conversazioni sulla fede e su Dio che ha avuto con centinaia di ebrei sopravvissuti ai campi di concentramento. Il rabbino li ha monumentalizzati in una ricerca con un risultato impossibile da prevedere. Quasi la metà di coloro che sono sopravvissuti all’inferno nazista non ha avuto la sensazione che l’esperienza vissuta abbia influenzato il proprio credo religioso in una direzione o nell’altra. Ecco la dichiarazione di un sopravvissuto: “Non mi è mai venuto in mente di mettere in discussione le azioni di Dio mentre ero imprigionato ad Auschwitz, anche se certamente capisco coloro che l’hanno fatto”. E poi aggiunge, per scoraggiare gli altri dal pensare che potrebbe essere un po’ meno intelligente: “Se qualcuno crede che Dio sia responsabile della morte di sei milioni di persone perché non ha fatto qualcosa per salvarle, ha invertito il suo pensiero. Dobbiamo a Dio la nostra vita per i pochi o molti anni che viviamo, e abbiamo il dovere di adorarlo”[1].

L’ammirevole fedeltà religiosa di quest’uomo sembra irriproducibile, ma le ricerche di Brenner hanno rivelato cose ancora più sorprendenti. Parlando apertamente con i sopravvissuti, il rabbino ha calcolato che circa il 5% di loro ha cominciato a credere in Dio come diretta conseguenza dell’esperienza vissuta nel campo. Se si estrapola al numero totale di ebrei europei sopravvissuti a quel periodo di odio contro di loro, in un luogo o nell’altro, il 5% corrisponde a circa 170.000 persone.

Brenner non ha cercato di riscrivere in maniera ottimista la storia dell’orrore nazista. Non ha nemmeno nascosto il fatto che l’11% dei sopravvissuti ha visto la propria fede scomparire, intrecciata al fumo delle camere a gas. Ma il fatto che il 5% dei sopravvissuti sia entrato nei campi di concentramento come ateo e ne sia uscito come credente e che quasi la metà di loro abbia lasciato il campo senza perdere la propria fede, tutto questo dimostra che è davvero possibile che, in mezzo al dolore più grande, ci siano ragioni per credere fermamente in Dio.

Le intuizioni contemporanee tendono di solito verso lo scenario più tragico: schiacciato dalla sofferenza, l’uomo lascia andare le sue ultime convinzioni e chi non ha sperimentato la sua sofferenza non ha il diritto di suggerire che potrebbe sbagliare. Ma quando si esaminano le mani giunte che nascono come una preghiera ostinata dalla valanga di sventure, anche chi non ha sofferto quanto quelle mani non ha il diritto di guardarle e di tacere.

 

Un bambino di dieci anni

Un bell’esempio di non silenzio è fornito dallo scrittore C.S. Lewis, che nel libro “Le cronache di Narnia” racconta di un bambino di nome Digory, la cui madre stava morendo. Digory si trova faccia a faccia con il grande leone Aslan, che simboleggia metaforicamente Dio, e, pur temendo un rifiuto, raccoglie il suo coraggio e chiede: “Mi scusi, signor leone Aslan… eccellenza – balbettò Digory. – Mi darebbe, per favore, qualche frutto magico della terra per far guarire mia madre?”[2].

Ma il Leone non risponde e continua a parlare come se non avesse nemmeno sentito la richiesta disperata del ragazzo. Non molto tempo dopo, Digory rinnova la sua richiesta: “Ma la prego, la prego, mi dia qualcosa che aiuti la mamma a stare meglio”. E C.S. Lewis, che ha perso la madre nella battaglia contro il cancro a soli dieci anni, dice che “Fino a quel momento gli occhi di Digory avevano fissato le zampe enormi e i grandi artigli di Aslan. Ora, preso dalla disperazione, il ragazzo aveva finalmente trovato il coraggio di guardare in faccia il leone. Quello che vide fu una delle cose più sorprendenti della sua vita: il muso fulvo era chino su di lui e, meraviglia delle meraviglie, gli occhi della grande creatura brillavano, gonfi di lacrime”.

La madre di Digory non fu guarita, così come non lo fu la madre di Lewis, così come la moglie, decenni dopo, non sfuggirà alla malattia. Ma anche quando non offrono la guarigione, le lacrime del Leone, di Dio, dicono che Egli si preoccupa veramente della nostra sofferenza.

 

Dio è se stesso

Ci vuole coraggio per vedere le lacrime di Dio. A volte non alziamo lo sguardo da terra per paura che il nostro sguardo venga accolto con severità, finendo schiacciati non solo dal dolore, ma anche dalla solitudine. A volte, quando il dolore diventa troppo grande per noi, abbiamo l’impressione che Dio si sia ridotto al punto, come diceva il pastore americano Pete Grieg, “della grandezza della nostra sofferenza” e abbiamo paura che le sue lacrime siano lacrime di impotenza.

Non lo vediamo così com’è, e allora la nostra perdita diventa più profonda, perché “la potenza della preghiera dipende quasi interamente dalla nostra capacità di capire chi è colui con cui parliamo”. La sofferenza ha, purtroppo, questa capacità di silenziare il suono della voce di Dio nei nostri cuori.

“La voce di Dio può essere facilmente attenuata dal nostro dolore, dal nostro odio per noi stessi o dai nostri folli preconcetti su chi Egli è veramente, su come parla e su cosa pensiamo che dirà. Ma quando veniamo a Dio […] con una ferita aperta di desiderio, veniamo ad Abbà, Padre, che ci ama profondamente”. Cristo non ha contraddetto il fatto che il Dio che desidera che lo chiamiamo “Padre” è un Dio nascosto. Ma le esortazioni del Maestro erano sempre rivolte a un’esperienza pratica di fiducia, non a una teorizzazione che ci aiutasse a decifrare l’ultima equazione del comportamento divino. In definitiva, la fede non permette di comprendere pienamente Dio prima di fare qualsiasi passo verso di Lui, ma si manifesta nella decisione di andare avanti con il Dio che rimarrà sempre profondamente conosciuto ma infinitamente sconosciuto a noi. Forse questo è proprio l’infinito per il quale abbiamo bisogno della vita eterna. Come ha detto Gesù: “Questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio” (Giovanni 17:3).

 

 

Di Alina Kartman, redattrice senior di ST Network e Semnele timpului

Fonte: https://st.network/analysis/top/strong-prayers-to-the-hidden-god.html

Traduzione: Tiziana Calà

 

[1] Reeve Robert Brenner, The Faith and Doubt of Holocaust Survivors, The Free Press, 1980, pp. 103-105.

[2] C.S. Lewis, Le cronache di Narnia, il nipote del mago.

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