Un anno da dimenticare, una lezione da ricordare

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Il 2019 non è stato un anno fantastico per la mia famiglia.

Tra le tante prove di quell’anno, i momenti più tristi sono arrivati quando mia figlia è stata ricoverata in ospedale, mio marito si è rotto la clavicola e un nostro caro amico è venuto a mancare.

Con il senno di poi, potrei pensare di essere stata fortunata, confortata dal fatto che tutto ciò è accaduto prima della pandemia del 2020, ma sto divagando.

Quando mia figlia è stata ricoverata in ospedale per una polmonite, ci è stato detto che un genitore doveva stare con lei e che dovevamo aspettarci di rimanere lì fino a sette giorni.

Ero grata di poter rimanere, ma ho pensato che fosse necessario un buon libro per trascorrere il tempo in ospedale.

Così ho curiosato tra gli scaffali della libreria dell’ospedale. La mia fronte si aggrottava cercando di scegliere il libro giusto: c’erano così tante opzioni, ma nessuna sembrava adattarsi alle mie emozioni del momento.

Alla fine ho preso un libro di Philip Yancey, “The Question That Never Goes Away”. Incuriosita, scrutai la quarta di copertina per trovare una frase con questa domanda: “Dov’è Dio quando soffriamo?”.

Visto come mi sentivo, mi sembrava che il libro mi avesse scelta e che la scelta fosse del tutto azzeccata.

Ho comprato quel libro, ma non l’ho per niente letto durante la nostra degenza in ospedale: era troppo difficile concentrarsi sulla lettura mentre la mia bambina lottava per respirare.

La guarigione di mia figlia progrediva di giorno in giorno e alla fine siamo state dimesse dall’ospedale. Grate di poter riposare nella quiete e nel comfort di un ambiente familiare, la nostra pace è stata rapidamente infranta in seguito a una telefonata da parte di mio marito: era caduto dalla bicicletta, si era rotto la clavicola e doveva essere operato.

Durante la sua convalescenza a casa, prese il libro che avevo acquistato e lo lesse da cima a fondo in un giorno solo, per poi insistere affinché lo leggessi anch’io. Leggendo le prime pagine, sono rimasta colpita dalla spiegazione di Yancey sull’etimologia della parola compassione, una parola di derivazione latina che significa “co-soffrire” o “con uno che soffre”. Suggerisce qualcosa di più della gentilezza; suggerisce che la compassione ha un impatto fisico ed emotivo significativo su una persona.

L’autore fa riferimento a una ricerca universitaria che ha reclutato volontari per testare quanto a lungo potessero tenere i piedi in secchi colmi di acqua gelata.

I ricercatori hanno osservato che quando una persona poteva entrare nella stanza con il volontario, quest’ultimo riusciva a sopportare il freddo due volte più a lungo di chi soffriva da solo.

I ricercatori hanno concluso che “la presenza di una persona premurosa raddoppia la quantità di dolore che una persona può sopportare”.

Quando qualcuno sta attraversando un momento difficile, mi preoccupo sempre di dire la cosa sbagliata o di farlo sentire peggio. Ho così tanti dubbi su cosa dovrei dire, come dovrei dirlo, che rischio di arrivare al punto da voler evitare l’argomento o persino la persona stessa. Ma con quanto abbiamo appena scoperto, grazie a questa ricerca, non potremmo forse dire questa mia paura era infondata?

È difficile superare il senso di inadeguatezza quando qualcuno soffre: è scomodo e imbarazzante. Tuttavia, ho imparato che questo disagio può essere cruciale per onorare il dolore di una persona e comprendere la vera compassione.

Yancey cita numerosi eventi tragici che hanno portato le comunità a riunirsi per “stare con chi soffre” e mostra gli svariati modi in cui le persone hanno mostrato compassione agli altri, proprio nel mezzo della tragedia.

Il messaggio di base per coloro che soffrono, afferma, è semplice: “Nei sei solo”.

Non voglio spoilerare il libro condividendo troppo. Lasciate invece che vi parli di Alex*.

Io e mio marito avevamo un buon amico, Alex, che è morto poco prima del suo 31° compleanno.

Abbiamo conosciuto Alex attraverso il nostro club ciclistico locale quando eravamo tutti molto giovani. Era una persona generosa con un sorriso accogliente. Faceva amicizia facilmente e ti faceva sempre sentire come se fossi la persona più interessante che avesse mai incontrato.

La famiglia e gli amici lo descrivono come il “labrador” degli esseri umani, sempre felice di vederti.

Il funerale di Alex, tuttavia, è stato un evento ansiogeno per i molti ciclisti che erano suoi amici.

Ricordo che mio marito ricevette telefonate e messaggi da amici che non sapevano se avrebbero partecipato o meno al funerale. Uomini e donne che un tempo erano stati ciclisti affiatati e competitivi, si erano allontanati nel corso degli anni.

I molti motivi per cui non partecipare al funerale erano, a volte, sciocchi: alcuni non andavano più in bici e avevano perso la forma fisica, altri avevano ormai i capelli grigi e le rughe, alcuni avevano divorziato. Tuttavia, credo che la vera ragione dietro queste vane scuse si nascondesse sotto la superficie. Il dolore era quasi insopportabile, perché le circostanze della scomparsa di Alex erano al di là della nostra comprensione. Nessuno voleva provare l’entità di un tale dolore, soprattutto non da solo in mezzo ad amicizie ormai perdute.

Il giorno del funerale, abbiamo visto “amici” che non si vedevano da anni mettere da parte le proprie insicurezze e vecchie rivalità per abbracciarsi e consolarsi a vicenda. Uno accanto all’altro, si sono confortati a vicenda. Mio marito e io siamo stati confortati dalle loro braccia strette intorno a noi. Finalmente abbiamo potuto “soffrire” l’uno con l’altro e alleviare un po’ del nostro dolore personale, ma soprattutto abbiamo potuto onorare il dolore della famiglia di Alex, che quel giorno ha trovato forza e incoraggiamento nella presenza di oltre 400 persone in lutto.

Credo che Dio abbia spinto tutti noi a superare le nostre insicurezze in quel momento perché c’erano in gioco cose più importanti. Dio sapeva che i nostri cuori avevano bisogno di essere curati da amore e speranza.

Sapeva che insieme avremmo potuto sopportare meglio quel dolore indescrivibile. Non è stato grazie allo sforzo di una sola persona, ma piuttosto grazie alla compassione intrecciata di molti, che nel nostro disagio abbiamo trovato il conforto del nostro Padre celeste.

Ansiosi, sofferenti, ma fianco a fianco, con le braccia strette l’uno all’altro, è stata una benedizione e, per me, una prova tangibile della presenza di Dio quando soffriamo.

Ripensando al periodo in cui nostra figlia è stata ricoverata in ospedale per una polmonite e alla clavicola rotta di mio marito, sono grata per le numerose visite di amici e familiari. Erano costretti a fare strada in più e a cambiare la loro routine solo per confortarci.

I genitori della scuola hanno offerto alla nostra famiglia pasti fatti in casa. I colleghi di lavoro ci hanno inviato un regalo commovente. Amici e parenti ci hanno fatto visita.

Quando mio marito è caduto dalla bici, il suo amico lo ha portato in ospedale ed è rimasto con lui al pronto soccorso, venendo a trovarlo ogni sera mentre io ero a casa con i nostri figli. Il nostro amico ha cambiato i suoi piani. Si è scomodato. Ha fatto uno sforzo speciale.

Un altro ha portato a casa la nostra auto, ha messo al sicuro la bicicletta non danneggiata e ci ha benedetto con una pentola di zuppa che aveva preparato. Anche in questo caso, un impegno speciale e “fuori mano”.

L’offerta della famiglia di badare ai nostri figli mentre io andavo in ospedale a trovarlo è stata una manna dal cielo. I miei genitori pulivano la casa e cucinavano per tutti noi.

Gli atti compassionevoli di amici e familiari che si sono fatti in quattro, senza aspettarsi ricompense o riconoscimenti, si sono combinati per aiutarci a sopportare una doppia porzione di dolore e angoscia.

Da queste esperienze è scaturita un’epifania: la vera compassione è scomoda e difficile perché è normale che lo sia.

Compassione significa “soffrire con”. La compassione onora qualcuno che è ferito o che soffre quando, con umiltà e preghiera, ci presentiamo per lui nel momento del bisogno. Possiamo accogliere qualsiasi sensazione di inadeguatezza sapendo che è lo sforzo di Dio, non solo il nostro, che verrà usato per il bene.

Galati 6:2 dichiara: “Portate i pesi gli uni degli altri e adempirete così la legge di Cristo”.

Questo risponde in qualche modo alla domanda: “Dov’è Dio quando soffriamo?”.

Dio si fa vedere, attraverso di noi. Quando qualcuno vive un momento difficile e cambiamo i nostri piani per aiutarlo, quando ci sediamo con lui nel suo dolore e lo aiutiamo a portare il suo fardello, gli portiamo il conforto di Dio.

2 Corinzi 1:4-7 dice così:

“Il quale ci consola in ogni nostra afflizione affinché, mediante la consolazione con la quale siamo noi stessi da Dio consolati, possiamo consolare quelli che si trovano in qualunque afflizione; perché, come abbondano in noi le sofferenze di Cristo, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione. Perciò se siamo afflitti, è per la vostra consolazione e salvezza; se siamo consolati, è per la vostra consolazione, la quale opera efficacemente nel farvi capire di sopportare le stesse sofferenze che anche noi sopportiamo. La nostra speranza nei vostri riguardi è salda, sapendo che, come siete partecipi delle sofferenze, siete anche partecipi della consolazione”.

Philip Yancey osserva che la compassione è la nostra testimonianza cristiana. Egli afferma: “Gesù non ha mai tenuto sermoni sul giudizio o sulla necessità di accettare la misteriosa provvidenza di Dio quando le persone stavano vivendo il dolore di una tragedia. Ha invece risposto con compassione, conforto e guarigione. Dio sta dalla parte di coloro che soffrono”.

L’anno che preferirei dimenticare ci ha dato un’importante lezione: stare con chi soffre, accettare che ci si senta a disagio e ricordare che Dio unisce la nostra compassione in modo che onori, sostenga e guarisca coloro che soffrono.

La mia preghiera è che Dio continui a lavorare nei nostri cuori per essere compassionevoli, in modo che non ci sia mai alcun dubbio su dove sia Dio: si vedrà quando ci presenteremo per chi è solo, prepareremo il cibo per chi è esausto, puliremo la casa per chi è in lutto, baderemo ai bambini per chi è ferito, pregheremo con chi ha il cuore spezzato e ci siederemo con loro in un silenzio scomodo quando non ci sono parole.

 

*Non è il suo vero nome.

 

 

Di Linzi Aitken

Fonte: https://record.adventistchurch.com/2022/07/28/a-year-to-forget-a-lesson-to-remember/

Traduzione: Tiziana Calà

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