La pratica della fede

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Quando ero al liceo, giocavo molto a basket: quasi tutti i giorni a scuola, poi gli allenamenti con la squadra e spesso due o tre partite a settimana. All’università, ho giocato nella migliore squadra di cui abbia mai fatto parte. Per due anni ci siamo allenati e abbiamo gareggiato regolarmente, vincendo due volte il campionato.

 

A distanza di vent’anni, gioco ancora a basket, a livello locale. Si tratta di un campionato “per anziani” (oltre i 30 anni) ma è un buon modo per mantenersi attivi e incentivare l’esercizio fisico tra una partita e l’altra. Ma non è solo perché sono più vecchio e più lento che lo standard di gioco è ben diverso. La vita è diversa – più impegnata e con priorità diverse – e io mi alleno raramente, con ancora meno opportunità di allenarmi con una squadra.

L’estate scorsa, con la pausa estiva che ha interessato anche il nostro “campionato”, magari con una partita annullata a causa del caldo e altri impegni che avevo, ho trascorso tre mesi senza giocare, prima di tornare a giocare un paio di partite alla fine della stagione. In quel periodo non avevo toccato un pallone da basket e quindi, come era prevedibile, la mia prima partita di ritorno non ha rappresentato un bello spettacolo (non che le nostre partite lo siano mai state, dopotutto) ed è stato davvero frustrante per me. La palla non sembrava fare quello che volevo con la stessa facilità.

Credo di poter essere definito un cestista non praticante. Di tanto in tanto vado ancora a giocare e mi piace ancora guardare le partite di basket, ma faccio poco per mantenere o sviluppare le mie capacità o la mia forma fisica. È il tipo di linguaggio che usiamo per descrivere persone che potrebbero mantenere un certo attaccamento culturale o sentimentale alla fede, ma non è qualcosa che fanno o praticano regolarmente. A seconda della loro tradizione di fede, potrebbero essere descritte come non praticanti, nominali, non osservanti o forse addirittura decadute. Ma si tratta dello stesso concetto, ed è piuttosto comune.

Ad esempio, secondo il censimento del 2016, il 52,1% della popolazione australiana si definisce cristiana. Tuttavia, meno del 10% degli australiani frequenta la chiesa anche solo con una certa regolarità. Non che la frequentazione della chiesa sia l’unica misura della fede praticata, ma è un indicatore evidente. C’è un divario sufficiente per suggerire che esiste un gran numero di non praticanti.

Vivere una fede efficace non si concentra solo sul regolare svolgimento delle attività spirituali; c’è anche un movimento in avanti – crescita o sviluppo – attraverso l’altro senso della parola “praticare”. È l’esortazione che accompagna ogni lezione di musica dell’infanzia, la richiesta di ogni allenatore che abbiate mai avuto in ambito sportivo, o la chiave del successo in tutte le attività che richiedono lo sviluppo di abilità, competenze o forza. È persino il modo in cui impariamo a camminare e a parlare. Diventiamo più bravi con la pratica.

E credo che questo sia il modo più importante di intendere la pratica della fede. Diventiamo più bravi facendola. All’inizio è probabile che ci si senta impacciati e fuori posto. Quando iniziamo a sperimentare le pratiche di fede, potremmo non essere sicuri di farle nel modo giusto e probabilmente non avremo l’eloquenza o la sicurezza dei credenti più esperti. D’altra parte, potremmo portare alla fede un entusiasmo e un’energia che alcuni credenti più esperti potrebbero aver perso, e questo è uno dei motivi principali per cui la fede riesce meglio se praticata insieme. Possiamo imparare e ispirarci gli uni gli altri, in momenti diversi della nostra esperienza e pratica di fede.

La maggior parte delle cose utili nella vita richiede lavoro, attenzione, priorità e sforzo. Può essere facile innamorarsi, ma ci vuole pratica per far crescere quell’amore in una relazione matura e duratura. Allo stesso modo, ci vuole pratica per incorporare le realtà della fede, della speranza e dell’amore nella nostra vita e per migliorare nel vivere in risposta, con tutte le loro implicazioni. La fede è la pratica di vivere come se fosse vero e, attraverso le sue pratiche regolari, questo diventa per noi più naturale, autentico e vero.

Per questo è importante anche la pratica del non praticare. Se è questo che pratichiamo, è questo che miglioreremo. Ho un amico il cui padre è stato a lungo allenatore di basket, che lo metteva in guardia contro i tiri sbagliati: “Non esercitarti a sbagliare, potresti diventare bravo”. C’è un’auto-affermazione in ciò che passiamo il nostro tempo a fare, a concentrarci e a investire. Quindi, dovremmo considerare attentamente la fede o la non fede che scegliamo di praticare. Come esseri umani, investiamo naturalmente in ciò in cui crediamo, ma cresciamo anche per credere sempre di più in ciò in cui investiamo e ciò che pratichiamo.

Nonostante i miei riflessi lenti e le mie ginocchia traballanti, più mi alleno a pallacanestro – se scelgo di farne una priorità – più i tiri tendono ad andare a segno, maggiore è la possibilità di giocare in una squadra vincente e più è probabile che mi piaccia e che continui a giocare. In breve, tutto ha più senso quando mi esercito.

Più pratichiamo la fede e scegliamo di farne una priorità, più è probabile che sia una parte reale, apprezzata, rilevante e duratura della nostra vita. E più parlerà e trasformerà le nostre vite e il nostro mondo.

 

 

Di Nathan Brown, redattore di libri presso la Signs Publishing Company di Warburton, in Australia.

Fonte: https://st.network/analysis/top/practising-faith.html

Traduzione: Tiziana Calà

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