Il saluto finale

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Imparare quanto non possiamo sapere

 

Il 19 dicembre 1999 ho dato la buonanotte a mio padre per l’ultima volta. Quella sera mi aveva appena accompagnata a casa di mia madre. Durante l’estate i miei genitori si erano separati e, quando iniziai la quinta elementare quell’autunno, iniziai a vivere a settimane alterne con mio padre nella casa della mia infanzia e con mia madre nel suo nuovo appartamento. Ogni sera chiamavo il genitore con cui non stavo al momento per dargli la buonanotte prima di andare a letto. Chiamavo anche la domenica sera, come la sera del 19 dicembre, nonostante avessi “cambiato” casa da poche ore.

Quella sera, prima di riattaccare, ricordo che mio padre mi diede una spiegazione del perché non sarei riuscita a contattarlo la sera successiva: disse che aveva una specie di riunione. Ricordo che pensai che fosse strano, perché di solito non aveva riunioni, ma non avevo motivo di sospettare che mio padre non fosse sincero con me.

La sera seguente, quando lo chiamai, non rispose. Mia madre mi permise di rimanere alzata fino a tardi quella sera, nel caso avesse richiamato, perché non avevamo mai perso una chiamata. Non mi richiamò, ma non ricordo di essermi preoccupata troppo per il fatto di non averlo sentito, dato che la sera prima mi aveva fornito una spiegazione che mi sembrava ragionevole.

 

La scoperta

Il giorno dopo, un martedì, era il mio ultimo giorno di scuola prima delle vacanze di Natale. Quel giorno uscii da scuola con un sacchetto pieno di regali di Natale che non vedevo l’ora di mostrare a chiunque fosse venuto a prendermi. Non ricordo chi dovesse essere, dato che, a causa degli orari di lavoro, mio padre mi veniva spesso a prendere nonostante fosse la settimana in cui stavo con mia mamma; sono però certa che non doveva venire mia zia, che era in piedi alla fine del marciapiede ad aspettarmi. Non ricordo quale spiegazione mi diede del perché fosse lì al posto dei miei genitori, ma ricordo che ripensai immediatamente alla telefonata persa con mio padre la sera prima. Ricordo anche la sensazione che avevo dentro di me che ci fosse qualcosa di sbagliato in tutta quella situazione. Mia madre mi aspettava a casa di mia zia e quando arrivai mi spiegò che quando mio padre non si era presentato al lavoro per due giorni di fila, il suo datore di lavoro l’aveva contattata. Era stata lei a trovarlo.

Quando dico alla gente che mio padre è morto suicida, la prima cosa che la gente vuole sapere è come si è tolto la vita. Non so se sono la sola a pensarlo, ma odio questa domanda. Non capirò mai il desiderio di sapere o di discutere il metodo scelto da una persona per porre fine alla propria vita.

“Perché?” è sempre la domanda successiva. Non ci ha lasciato un biglietto o una spiegazione. Ricordo che mia madre cercò di spiegare la depressione e la malattia mentale, con parole comprensibili a una bambina di 11 anni, per aiutarmi a capire cosa era successo. Ricordo che mi disse che non mio padre non ragionava con chiarezza, che qualcosa era cambiato nel suo cervello e che non era più se stesso. “Papà non era papà quando ha fatto questo gesto”, disse. Sono per sempre grata che abbia avuto la lucidità necessaria per aspettare che non fossi a casa e che non fossi io a trovarlo. Mi chiederò sempre se quella sera, mentre eravamo al telefono, lo sapesse già. Aveva già deciso prima di accompagnarmi da mia madre quel pomeriggio?

Dopo la sua morte scoprimmo che era stato visitato da un medico e gli erano stati somministrati dei farmaci per la depressione, come ci si potrebbe aspettare da una persona che sta attraversando un’esperienza di vita dolorosa come il divorzio. Ma gli amici ipotizzarono che non avesse preso i farmaci, poiché aveva detto loro che non gli piaceva il modo in cui lo facevano sentire.

 

L’elaborazione

Ripensandoci da adulta, vedo molte cose che la me stessa undicenne non aveva colto. Ora posso riconoscere che mio padre non si comportava normalmente negli ultimi mesi. C’è molto senso di colpa nel chiedersi: e se avessi notato allora quello che ora vedo così chiaramente? Avrei potuto parlare e farlo aiutare? Naturalmente, capisco che ero troppo piccola per ritenermi responsabile di non essermi accorta di nulla. È confortante e allo stesso tempo allarmante sentire che altri familiari e amici hanno detto la stessa cosa: guardando indietro, possono vedere le grida di aiuto, ma anche loro hanno capito troppo tardi il suo dolore.

Qualche anno dopo, una ragazza a scuola mi disse che mio padre non sarebbe entrato nel regno dei cieli, perché “il suicidio è un peccato, la violazione del comandamento di non uccidere, e una volta morto non si può chiedere perdono”. Nel corso degli anni, dopo la morte di mio padre, ho sentito spesso simili argomentazioni. Ripenso sempre a ciò che mi disse mia madre quel giorno: “Papà non era papà quando ha fatto questo gesto”.

Alcune settimane prima della morte di mio padre, era stato invitato da un amico ad andare in chiesa con lui. Ricordo di esserci andata una o due volte con lui. Mentre io frequentavo spesso la chiesa con una mia compagna di scuola, questa era la prima volta in vita mia in cui uno dei miei genitori frequentava una chiesa. Quello che all’epoca sembrava uno strano cambiamento nel suo comportamento ora mi dà conforto.

La perdita di una persona cara a causa di un suicidio mi ha lasciato con tante domande senza risposta, soprattutto riguardo a ciò che sarebbe successo dopo. In seguito abbiamo scoperto che mio padre aveva cercato di parlare con il pastore della sua nuova chiesa. Questo mi fa sperare che prima dei suoi momenti più bui mio padre avesse iniziato a sviluppare una relazione personale con il Signore. Sebbene da adulta abbia una comprensione più approfondita degli squilibri chimici e di ciò che accade nel cervello quando una persona soffre di depressione, credo che nessuno di noi possa dire con certezza cosa significhi per la salvezza di una persona che si toglie la vita. Trovo pace nel sapere che Dio è un giudice giusto e amorevole che conosce mio padre molto più di quanto io possa immaginare. Sono così felice che sia compito di Dio, e non nostro, determinare chi si salverà alla fine. Ogni giorno faccio del mio meglio per lasciarlo nelle sue mani e scelgo invece di spendere il mio tempo e le mie energie facendo ciò che posso per raggiungere coloro che mi circondano e che potrebbero affrontare una lotta simile, aiutandoli a sentirsi meno soli.

 

 

Di Laura Frary, insegnante presso la Holland Adventist Academy, Michigan

Fonte: https://adventistreview.org/magazine-article/the-final-good-night/

Traduzione: Tiziana Calà

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