La giustizia divina contro quella umana

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Nella Parola di Dio ci sono verità eterne sulla giustizia divina. Si tratta del trattamento equo e imparziale che Dio riserva a tutti gli esseri umani, che è un necessario correlato della sua santità, o eccellenza morale. Poiché Dio è infinitamente ed eternamente perfetto, deve essere imparziale nei suoi giudizi e trattare sempre le sue creature con equità (cfr. Genesi 18:25).

La giustizia divina, più comunemente conosciuta come la giustizia di Dio, è la caratteristica più significativa del Signore che dobbiamo contemplare e comprendere. Come esseri umani che vivono in presenza del peccato, è ovvio che la condotta ribelle, dal predicatore sul pulpito al membro seduto sulla panca, produce mancanza di rispetto per la divinità e colpa, che porta al conflitto con l’umanità.

La giustizia di Dio richiede libertà, responsabilità, cambiamento e trasformazione ed è diversa dalla sociale giustizia umana. Una differenza lampante viene dimostrata da Gesù in una parabola “nascosta” in Matteo 18:21-25. Si tratta di un drammatico esempio di giustizia divina contro la giustizia umana, in cui le due cose vengono messe a confronto in modo accorto.

La narrazione di questa parabola, nota come il servo che non perdona, o il servo ingiusto, dovrebbe essere giustamente definita un confronto tra la giustizia divina e quella umana; ma viene anche spesso descritta come l’illustrazione di Gesù del vero spirito del perdono. Quando Pietro la sentì, nel suo ruolo di portavoce dei discepoli, prese l’iniziativa di migliorarla con una domanda che in realtà non era una domanda: “Signore, quante volte perdonerò mio fratello se pecca contro di me? Fino a sette volte?” (Matteo 18:21).

Poiché Pietro è comunemente descritto come uno il cui ragionamento veniva spesso offuscato dalla sua cultura, dai suoi costumi o dalla sua idea di cosa significasse essere il Messia, viene spesso etichettato come uno che parla senza filtri, carente di un po’ di buon senso. Ma noi dobbiamo molto alla lingua veloce di Pietro. È vero, ha più volte sbagliato, soprattutto quando si è affrettato a parlare in modo impetuoso. Infatti, in un’occasione, Gesù ammonì Pietro con forza, dicendo: “Tu non hai il senso delle cose di Dio, ma delle cose degli uomini” (Matteo 16:23).

A prescindere dall’avventata spontaneità di Pietro, tuttavia, senza la sua zelante disponibilità a mettersi in gioco e a parlare liberamente, non avremmo lezioni eterne come quella che si trova in Matteo 18:21-35. È merito di Pietro, infatti, questa lezione eterna, tratta da Gesù con una domanda che tutti avremmo voluto fare: “Signore, quante volte perdonerò mio fratello se pecca contro di me? Fino a sette volte?”.

Pietro aveva più che raddoppiato la pratica ebraica di perdonare un’offesa per tre volte. Gli antichi ebrei seguivano rigidamente questa regola in base alla loro interpretazione di Amos 2:6, dove leggiamo: “Così parla il Signore: Per tre misfatti d’Israele, anzi per quattro, io non revocherò la mia sentenza”. Da ciò i farisei (e non solo) dedussero che la giustizia divina si estendeva solo a tre peccati, né più né meno. Alla quarta volta, il colpevole sarebbe stato severamente punito. Questa regola era un insegnamento rabbinico a cui tutti gli ebrei al tempo di Gesù dovevano attenersi.

Così, quando Pietro suggerì di perdonare sette volte, gli altri discepoli dovettero pensare a un gesto magnanimo. Pietro aveva moltiplicato per due il requisito rabbinico e poi ne aveva aggiunto un altro per buona misura. Ma Gesù rispose notoriamente: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette”. Per essere chiari, in questa parabola Gesù ha illustrato la giustizia del cielo usando l’atto del perdono praticato da un re compassionevole che rappresentava Dio e da un servo ingiusto che rappresentava gli uomini.

Non potremmo chiedere una differenza più netta e vivida tra la giustizia divina e quella umana. Gesù non ha detto o inteso solo 77 volte, ma piuttosto 70 volte moltiplicate per sette, cioè 490 volte. In questo modo, ha dimostrato chiaramente che nessun numero finito può mai indicare l’estensione insondabile del perdono nella giustizia divina, così come la sua volontà di salvare l’umanità e redimerci dalla potenza, dalla presenza e dalla pena del peccato.

 

 

Di Hyveth Williams, professoressa presso il seminario di teologia della Andrews University.

Fonte: https://adventistreview.orxg/cure-for-the-common-life/divine-versus-human-justice/

Traduzione: Tiziana Calà

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