La fede nella tempesta 

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Come conciliare famiglia e preghiera nei momenti difficili 

 

Storie di resilienza, flessibilità e rinnovata speranza abbondano in questo periodo difficile caratterizzato dal Covid-19. Quando le cose si fanno difficili, rafforziamo la nostra fede guardando oltre i limiti e andando avanti con coraggio e lungimiranza. 

 

Così ieri sera abbiamo preso un ombrello, ci siamo diretti verso il marciapiede fuori dal Tampa General Hospital, e abbiamo sbirciato nella notte verso la debole sagoma di un giovane che guardava giù da una finestra allottavo piano. 

 

Una diagnosi invidiabile 

Quando nostro figlio Jeff aveva 17 anni, gli fu diagnosticata la colangite sclerosante primitiva, un raro e incurabile disturbo autoimmune. Con 10-20 anni di vita preventivati, ha trascorso successivo decennio e mezzo in una spirale discendente. Mentre il suo corpo attaccava il suo fegato, diventava sempre più itterico, gravemente pruriginoso, esausto e distrutto dal dolore. 

 

Nellaprile del 2019, ricevette una chiamata che gli cambiò la vita. Una donna di mezza età aveva avuto un ictus e aveva voluto donare i suoi organi, per salvare la vita di altre persone. I suoi polmoni avrebbero permesso a un uomo di respirare di nuovo; i suoi occhi avrebbero fornito la vista a un’altra persona; e il suo fegato avrebbe dato a mio figlio la possibilità di prolungare il suo tempo su questa terra. 

 

La chiamata arrivò alle 10:30 di un sabato mattina. Diretti verso lospedale, ci siamo concessi il più piccolo frammento di speranza. Cerano state quattro chiamate precedenti. La prima si era conclusa con una permanenza di 16 ore in ospedale, per poi scoprire che il fegato del donatore non era sano. La seconda e la terza si erano rivelati donatori a rischio e mio figlio aveva rifiutato i loro organi. Così, nel weekend di Pasqua, siamo andati in ospedale senza sapere cosa temere, se unaltra delusione o un intervento chirurgico di sette ore per rimuovere e sostituire lorgano più grande del corpo umano. 

 

Alle 14:00 Jeff si è sistemato in un letto dospedale ed è iniziata la lunga attesa. Il pomeriggio si è trasformato in serata. Dieci unità di sangue e un elettrocardiogramma più tardi, ha ricevuto la notizia di aver superato il primo ostacolo: il suo corpo era pronto a sopportare un intervento chirurgico così importante. Ma il fegato del donatore sarebbe stato abbastanza sano da meritare un trapianto? Non avremmo saputo la risposta a questa domanda per altre 30 ore. 

 

Nel frattempo siamo stati insieme, ricordando alcuni momenti della sua infanzia, ridendo a semplici battute, pregando e legandoci in una dolcezza che si vive solo nei momenti più difficili. Proprio mentre ci preparavamo per la seconda serata di veglia, un giovane è entrato nella stanza dospedale di Jeff. 

 

Sono qui per portarti in chirurgia. Così dicendo, ha portato altra speranza nelle nostre vite. 

 

Osare sperare 

Nella sala dattesa ho messo in fila una serie di sedie, cercando di allungarmi in posizione prona. Ho ricevuto messaggi da parte degli amici; le ore passavano. All’incirca verso mezzanotte, il telefono dellospedale ha squillato. 

 

Siete la famiglia Doran?. 

 

Il mio cuore batteva forte. 

 

Abbiamo tolto il fegato di vostro figlio. Ci è voluto un po più di tempo del previsto a causa delle dimensioni del fegato e del pancreas. Ma tutto sta andando bene. Ora inizieremo il processo di trapianto del nuovo fegato. Ci vorranno diverse ore prima di avere notizie. 

 

Da qualche parte, in fondo al corridoio, si sentiva il rumore di passi; lorologio sul muro ticchettava; un condizionatore rinfrescava gli spazi. Io e mio marito abbiamo fatto un lungo respiro; abbiamo pregato e siamo andati avanti, in bilico tra speranza e paura. 

 

Abbiamo tolto il fegato di vostro figlio. 

 

Quelle parole erano restate a mezz’aria, proprio come la vita di Jeff che pendeva tra due organi, uno rimosso, laltro non ancora trapiantato. Per la millesima volta ho modellato il mio maglione cercando di fargli assumere la forma di una specie di cuscino, per poi mettermelo dietro la testa, risistemandomi stesa tra quelle sedie che mi servivano da letto. 

 

L1 di notte; le 2, le 2:20, le 2:32, le 2:45. Ogni volta che sfioravo il mio cellulare, lo schermo si illuminava, evidenziando il lento scorrere del tempo. Alle 4:00 del mattino la dottoressa Lu è entrata nella stanza. Potevo vedere le linee dove la mascherina aveva premuto sulle sue guance, nelle ultime sette ore. I suoi occhi sembravano stanchi. 

 

Abbiamo finito, disse. “Vostro figlio sta bene. Lo porteremo in terapia intensiva. Potrete vederlo tra circa 30 minuti. 

 

Come si ringrazia la donna che ha appena salvato la vita del proprio figlio? Come si fa ad accettare il fatto che da qualche parte unaltra famiglia è rannicchiata a piangere la perdita di colei che ha appena dato la vita al proprio figlio? Ci siamo stretti la mano. Ci siamo diretti verso la porta. Il sole sorgeva, portando con sé il lunedì mattina, creando strisce di luce sul corridoio che conduceva alla stanza dove nostro figlio dormiva, medicato, fragile e pieno di promesse. 

 

Fino alla prossima sfida 

Il 7 maggio 2019, Jeff è uscito dallospedale, deciso a rinunciare alla sedia a rotelle e a raggiungere la macchina da solo. Nei mesi successivi, la nostra famiglia ha imparato in prima persona il significato delle trasfusioni di magnesio, del dosaggio del programma, del diabete indotto da steroidi, della ritenzione di liquidi e del rigetto iniziale degli organi. Abbiamo imparato anche i teneri legami che uniscono la famiglia quando nulla viene dato per scontato, insieme alla forza unica che deriva dalla fede in Dio. 

 

Il 21 aprile 2020 abbiamo festeggiato il primo anno da quell’importante traguardo. Il primo anno è il più difficile, ci hanno detto. Se lo si supera, le possibilità sono buone. 

 

Il morale di Jeff ha cominciato a risollevarsi. Ha falciato il prato per la prima volta. Le sue telefonate erano piene di parole di gioia e speranza. 

 

Poi arrivò la sua telefonata. 

 

Mamma?, mi disse, con la voce che tremava. Le mie analisi del sangue non sono buone. Lospedale vuole che mi faccia visitare immediatamente. 

 

Così, nel bel mezzo di una pandemia, con la porta dingresso dellospedale presidiata da una guardia armata, abbiamo fatto quello che avrebbe fatto qualsiasi genitore. Abbiamo parcheggiato la macchina, abbiamo camminato su un lungo marciapiede dietro un alto edificio di mattoni in una notte buia e piovosa, e abbiamo strizzato gli occhi verso lalto nel buio. 

 

Una piccola torcia elettrica ha richiamato la nostra attenzione verso la seconda finestra da sinistra, otto piani più in alto. Debolmente, abbiamo scorto il profilo del giovane che chiamiamo “nostro figlio. Lo abbiamo salutato, abbiamo pianto, abbiamo sperato, abbiamo pregato. Una leggera brezza soffiava dal fiume. Alzando lo sguardo verso il cielo, bagnati da una leggera pioggia, la nostra fede si è fatta carne. 

 

 

Di Sandra Doran, direttrice creativo del programma “Three Angels for Kids”. 

Fonte: https://www.adventistreview.org/faith-in-the-rain  

Traduzione: Tiziana Calà 

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