Fede consolatrice

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In genere non mi piace andare ai funerali, ma essi si presentano sotto molte forme e sensazioni diverse. Alcuni sembrano più tristi di altri, altri più ricchi di speranza. Ma spesso c’è un inaspettato sentimento agrodolce. Siamo tutti lì per qualcosa di buono (la vita, l’amore e la relazione che siamo lì per ricordare e onorare) che ha avuto una fine tragica, sempre troppo presto.

 

Con le loro varie culture e tradizioni, questi incontri alimentano, mettono alla prova e rivelano le nostre speranze e paure più profonde, i dubbi e le credenze. Anche tra coloro che non sembrano pensare molto alla fede in altri momenti, queste occasioni presentano invariabilmente qualche forma o frammento di fede religiosa e, per quanto mal formata, presa in prestito o casuale possa essere, almeno una teologia provvisoria della vita e della morte. Questi sono impiegati per la loro consolazione e l’orientamento che offrono in un evento altrimenti disorientante.

Eppure questa è una delle critiche spesso mosse alla fede nelle sue varie forme e pratiche: che si tratta solo di una mera consolazione. Viene liquidata come una “stampella” per affrontare la vita, le sue tragedie e le sue delusioni, in particolare per coloro che sono più deboli e non sono attrezzati per andare avanti. Come tale, la fede è considerata una sorta di evasione che incoraggia un ingenuo e fuorviante distacco dalla realtà. Invece di superare con forza le battute d’arresto della nostra vita e le sfide del mondo reale, così si dice, la fede promuove la passività e spinge i suoi membri a concentrarsi su una sorta di altro regno, una coscienza alterata o una vita dopo la morte.

Ci sono tre risposte ugualmente legittime a queste critiche: sì, no e ancora sì.

 

I critici hanno ragione

In primo luogo, sì, la fede è stata troppo spesso sostituita all’azione di fronte alla dura realtà. Come ogni cliché, c’è una verità nascosta dietro. La fede è stata usata come “l’oppio dei popoli”, per citare l’infelice frase di Karl Marx, da coloro che detengono il potere in varie società. Ma, a volte, la fede è stata anche abbracciata dal popolo stesso che ha usato le consolazioni della religione come un modo per scrollare le spalle e trarre cupamente il meglio dallo status quo.

Di fronte all’inevitabilità della vita, della morte e di tutte le delusioni, le ingiustizie e i dolori che insorgono, la fede è stata usata per normalizzare la tragedia, scusare l’imperdonabile, coltivare la complicità con l’ingiustizia e adattare il nostro senso dell’eterno alla realtà della mortalità. E se questo è tutto ciò che c’è nella fede, i suoi membri sono giustamente oggetto di critica e persino di pietà.

 

Nessuna strada facile

D’altra parte ci sono molte persone di fede che sosterrebbero che la loro fede non è una ritirata dalla realtà, ma il catalizzatore per il loro più pieno coinvolgimento con la vita, con il mondo e con la resistenza all’apparente inevitabilità dello status quo. Come ha dichiarato l’attivista sociale indiana Vandana Shiva, “Una tendenza spirituale implicava una totale inattività nel mondo, mentre l’attivismo era associato alla violenza. Ma improvvisamente le uniche persone che sembrano avere il coraggio di agire sono quelle profondamente spirituali, perché sono solo quelle che sanno che esiste un altro mondo, un’altra dimensione, che non sono intimidite dal mondo del potere organizzato”.

Questo è un senso in cui è più corretto dire: no, la fede non è necessariamente una consolazione. La fede non è una bolla che ci isola dal mondo che ci circonda; è piuttosto una chiamata che può rendere la vita più difficile, meno confortevole, persino più pericolosa. La storia racconta innumerevoli testimonianze di persone per le quali la fede non ha reso la loro vita più facile, migliore o di maggior successo.

Al contrario, hanno sofferto per la loro fede e nel perseguire le vocazioni e i compiti a cui essa li chiamava. Vivere, agire e parlare contro l’ingiustizia, contro i potenti, contro i presupposti della società che ci circonda è un duro lavoro, un lavoro spesso ingrato. Molti di questi attivisti preferirebbero una vita più tranquilla e una vocazione meno problematica. Ma, in questo senso, la loro fede è più convinzione che consolazione.

Quando si affrontano le tragedie e le delusioni personali, la convinzione che ci sia un qualche tipo di potere o scopo dietro le quinte a volte solleva più domande di quante ne risolva: perché le cose brutte accadono alle “brave persone”? Qual è il significato o lo scopo nella tragedia apparentemente senza senso? Perché un “bene ultimo” permetterebbe che la sofferenza continui? Perché seguire la propria fede costa spesso così tanto? Queste domande possono aggravare, piuttosto che alleviare, le esperienze di dolore e sofferenza per coloro che rivendicano la fede.

 

Vivere bene

Ma d’altra parte, sì, la fede è una consolazione, una consolazione necessaria. Non dovremmo vergognarci di ammettere che la vita è difficile, spesso in modo tragico. Quando siamo stati a troppi funerali, quando affrontiamo la nostra mortalità, quando sperimentiamo il nostro dolore e la nostra tristezza, quando vediamo e sentiamo la sofferenza e la rottura nel nostro mondo, anche la nostra delusione, paura, frustrazione e rabbia ci spingono a guardare oltre noi stessi. Cerchiamo un significato, ci aggrappiamo alla speranza e desideriamo qualcosa di più.

Tante persone hanno trovato queste necessità, queste consolazioni, nella fede. Come esseri umani che sentono il dolore, soffrono l’ingiustizia e hanno bisogno di speranza, non dobbiamo scusarci per la fede consolatoria. È un modo di vivere in modo significativo in mezzo alle tragedie e alle delusioni della vita. In quei giorni dai sentimenti agrodolci in cui seppelliamo coloro che amiamo e fissiamo negli occhi la mortalità, la fede può aiutarci a farlo bene e a unirci mentre lo facciamo.

 

 

Di Nathan Brown, editore di libri per Signs Publishing a Warburton, Australia.

Fonte: https://st.network/analysis/top/consoling-faith.html

Traduzione: Tiziana Calà

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