Moglie, madre e… discepola

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Una specialista della famiglia condivide ciò che ha imparato nel corso della vita.

 

Da novelli sposi, io e mio marito, Darius, abbiamo incontrato il presidente dell’Unione dove mio marito stava per iniziare il suo primo lavoro ministeriale. Dopo i convenevoli e le congratulazioni iniziali, ci ha chiesto: “Sapevate che Dio ha creato il matrimonio per la crescita del carattere?”.

Come giovane donna di 23 anni, non avevo mai pensato al matrimonio in questi termini; ma ho scoperto ben presto che aveva ragione.

 

Nei primi anni del nostro matrimonio, ogni volta che io e Darius avevamo un problema, la mia reazione istintiva era quella di dare a lui la colpa di ciò che andava storto. Ma negli anni successivi ho capito che le cose spiacevoli che mi uscivano ogni volta che ci scontravamo non erano dovute a quello che aveva detto o fatto, ma a quello che c’era dentro di me.

Mentre a poco a poco imparavo ad assumermi la responsabilità dei miei difetti, il mio carattere si è trasformato. Piano piano ho imparato a gestire meglio la mia rabbia, a essere meno puntigliosa e critica, a essere più empatica e a dare un po’ di tregua a mio marito quando non faceva le cose come le facevo io. Ho capito che il matrimonio era davvero un’opportunità per perfezionare il carattere e, continuando a fare dei progressi, la vita matrimoniale è diventata gradualmente molto meno problematica.

 

Ma poi sono nati i nostri figli. Quei difetti di carattere che pensavo fossero scomparsi, sembravano essere tornati per vendicarsi. Ma soprattutto, mi sono resa conto di avere molti più difetti di quanto pensassi! Mentre i miei figli crescevano, ho capito quanto fossi davvero carente di amore, gioia, pace, pazienza, gentilezza, bontà, gentilezza e autocontrollo.

 

Se in quel momento non mi fossi unita a un gruppo, mi sarei disperata, le mani nei capelli. Ci eravamo appena trasferiti in una nuova città e, nel tentativo di creare dei legami, ero andata nella chiesa del quartiere, per chiedere se c’era un gruppo di donne che si riuniva, a cui potevo unirmi anch’io. Mi risposero che in effetti c’era un gruppo che si riuniva, a pochi passi da casa mia. Così, il mercoledì mattina, mettevo i bambini in un doppio passeggino e mi incontravo con un gruppo di donne, rappresentanti ceti sociali e denominazioni diverse.

Ricordo ancora il mio primo incontro: essendo l’unica avventista del gruppo, volevo dare il meglio di me, per testimoniare della mia fede. Tuttavia, ho presto scoperto che le donne di quel gruppo non indossavano maschere; al contrario: i problemi matrimoniali, tra coniugi, con i suoceri e altre situazioni personali, veniva tutto condiviso in maniera schietta e realistica per poi essere messo in preghiera.

Nei due anni successivi di frequentazione del gruppo, ho assistito a persone, a cristiane, che portavano il peso le une delle altre e che confessavano le proprie debolezze (Galati 6:1-2). Anche se non ho imparato ad aprirmi così tanto come le altre, ho però capito che potevo condividere alcuni dei miei difetti e delle mie difficoltà e continuare a essere amata; ho imparato che quando condividevo un peso mio personale o della mia famiglia e chiedevo di pregare per questo, mi sentivo più leggera; mi sono resa conto che il mio bisogno di continuare a crescere nel carattere era meno scoraggiante all’interno di questa autentica comunità cristiana.

Guardandomi indietro e analizzando le mie esperienze passate, sia nella mia famiglia che nei tanti piccoli gruppi di fede di cui ho fatto parte da allora, mi sono resa conto che sono state tutte delle vere e proprie esperienze di discepolato.

 

Alcune persone che ho incontrato considerano il discepolato “l’ultima parola d’ordine”. Altri mi hanno detto che la parola discepolato non è nella Bibbia e quindi non è biblica. Eppure, leggendo il Nuovo Testamento, sono convinta che il concetto di discepolato fosse centrale nella vita e nel ministero di Gesù e degli apostoli. Pur essendoci molte definizioni del termine discepolato, la maggior parte sono un’utile rappresentazione di quanto presentato nel Nuovo Testamento; la definizione che più mi colpisce è la seguente:

“Il discepolato cristiano è il processo che dura tutta la vita, con lo scopo di imparare a seguire Gesù e diventare più simili a Lui, a beneficio degli altri”.

 

Lasciate che mi soffermi un po’ su questo concetto.

Il discepolato è un processo di apprendimento. Come facciamo a saperlo? Perché il termine che è stato tradotto con “discepolo” nel Nuovo Testamento è mathētḗs, che deriva dalla parola greca “imparare”. Ecco quindi che un discepolo cristiano è colui che sta imparando a seguire Gesù.

Quando impariamo a seguire Gesù, a “stare con” e “rimanere in” Lui (Giovanni 15), e quando “contempliamo la [sua] bellezza” (Salmo 27:4), riconosciamo quanto siamo diversi da Lui e quanto vogliamo diventare più simili a Lui. Più e più volte il Nuovo Testamento sottolinea la “formazione” o la “trasformazione” come la meta della vita cristiana (Romani 6:6; 12:2; 2 Corinzi 3:18; 5:17; Galati 2:20; 4:19).

 

Mi piace il modo in cui Ellen White ne parla: “restaurare nell’uomo e nella donna l’immagine del Creatore e ricondurli alla perfezione di quando erano stati creati. […] Questo è l’obiettivo dell’educazione [o del discepolato], il grande obiettivo della vita.” (Principi di educazione cristiana, p. 10).

Mi piace anche che Ellen White descriva questo processo di formazione come un viaggio che dura tutta la vita, che “non può essere completata in questa vita, ma che proseguirà in quella futura” (ibidem, p. 12).

 

Mentre affrontiamo le mutevoli circostanze della vita, ci vengono date nuove opportunità per essere formati a Sua immagine e somiglianza. Come questa affermazione rivela in modo così profondo:

“[La vita familiare] può rivelare quanto abbiamo bisogno di diventare come Cristo. Quando i figli sono ormai cresciuti, la vita sorprende molti di noi con prostate ingrossate, diabete, mal di schiena e cancro al seno. I nostri figli divorziano e tornano a vivere con noi. Il risentimento, la delusione e molte emozioni negative che credevamo scomparse, ritornano con rabbia. Ciò che diventa così fortemente vero è che tutti gli eventi e le circostanze ci formano in Cristo; e questa formazione avviene per tutta la vita” (1).

 

Quando finalmente ho capito che il discepolato è un viaggio che dura tutta la vita, “una lunga ubbidienza nella stessa direzione” (2), ho capito perché le donne del mio piccolo gruppo di tanti anni fa non indossavano maschere. E mentre io volevo andare avanti nella mia formazione, loro avevano compreso che non era “l’opera di un momento, di una ora, o di un giorno, ma di tutta una vita” (White, Gli uomini che vinsero n impero, p. 352). Di conseguenza, non provavano vergogna nel mostrare i propri difetti e sbagli.

 

Manca un altro pezzettino alla mia definizione: il discepolato cristiano deve essere a beneficio degli altri. Quando imparo ad amare e a seguire Gesù, imparo anche ad amare gli altri (Matteo 22:37-39). Questo processo inizia nella mia famiglia: crescendo nel frutto dello Spirito (Galati 5:22-23), la mia famiglia ne trae beneficio; quando imparo a gestire la mia rabbia senza peccare (Efesini 4:26), la mia famiglia ne trae beneficio; quando imparo a esprimere la mia sessualità in modi che rendono onore a Dio (1 Tessalonicesi 4:3-5), la mia famiglia ne trae beneficio; e così via. Ma si estende anche ai miei rapporti con coloro che sono al di fuori della mia famiglia, in particolare con coloro che hanno bisogno di conoscere e sperimentare l’amore e la grazia di Gesù. Quando imparo a seguire le orme di Gesù, quando imparo a lasciarmi trasformare da Lui, imparo anche come far parte e come impegnarmi nella Sua missione nel mondo (Matteo 4:19).

 

Ho ancora molta strada da fare. Sono ancora troppo concentrata sui miei bisogni e desideri. Ma so quello che Dio ha fatto nella mia vita. E so che l’opera di Dio nella mia vita e nella vita degli altri, come la mia famiglia e la mia comunità, è un processo che dura tutta la vita. Posso quindi vivere senza pretese e vergogna, posso essere paziente con me stessa e con gli altri perché so che il Suo lavoro in noi non è ancora finito.

 

 

(1) Bill Hull, The Kingdom Life (Colorado Springs: NavPress, 2010), 110-111.

 

(2) Eugene Peterson, A Long Obedience in the Same Direction: Discipleship in an Instant Society (Downers Grove, IL: InterVarsity Press, 2002).

 

 

Di Edyta Jankiewicz, Adventist Record

Fonte: https://bit.ly/37kgJpp

Traduzione: Tiziana Calà

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