Creati a immagine di Dio, è diventato sempre più facile per gli esseri umani dimenticare la sua immagine e ricostruirla secondo la propria immaginazione. L’immagine che abbiamo di Dio e il modo in cui ci relazioniamo a lui influenzano ogni aspetto della nostra vita e incidono sul nostro benessere psicologico.
Secondo le ricerche esistenti, non solo le relazioni interpersonali, ma anche l’interazione con il divino ha un forte impatto sul benessere psicologico. La relazione tra le nostre credenze religiose e la salute è ricca di sfumature, come dimostrano studi recenti, e i ricercatori non hanno raggiunto un consenso su quali aspetti del coinvolgimento religioso abbiano il maggiore impatto, o sui meccanismi con cui le credenze religiose influenzano il benessere fisico e psicologico. Alcuni studi si concentrano maggiormente sulla religiosità istituzionale, mentre altri esaminano il modo in cui la devozione personale influisce sulla salute individuale.
La relazione tra l’immagine che abbiamo di Dio e la nostra salute mentale
Il volume e la qualità degli studi sul rapporto tra religione e salute sono aumentati negli ultimi decenni, grazie a programmi di ricerca innovativi in campi come la psicologia, la sociologia, la psichiatria, la gerontologia o l’epidemiologia sociale.
Le credenze religiose proteggono il benessere psicologico in mezzo a esperienze stressanti: questa è la conclusione di uno studio condotto dai ricercatori Amy Ai e Crystal Park, che hanno esaminato come le risorse religiose influenzino il recupero post-operatorio nei pazienti cardiopatici. Lo studio ha rilevato che le strategie adattive positive includono il perdono, la ricerca di sostegno religioso, la comunione con persone che la pensano allo stesso modo, la connessione spirituale e l’inclinazione alla generosità, mentre le risposte disadattive alle situazioni stressanti (insoddisfazione spirituale, paura della punizione divina, insicurezza o dubbio) sono associate all’incapacità dei pazienti di proteggersi dallo stress, dalla depressione e dall’ansia, che predicono un cattivo recupero post-operatorio.
Le persone che pregano godono di una migliore salute mentale, secondo una serie di studi condotti su campioni diversi, tra cui anziani canadesi, ministri presbiteriani negli Stati Uniti, adulti australiani e pazienti sottoposti a un intervento di bypass aorto-coronarico. Altri studi non hanno trovato un’associazione positiva tra la frequenza della preghiera e la buona salute mentale, o addirittura hanno riportato un’associazione tra la preghiera e la presenza di sintomi di depressione e ansia.
Nel tentativo di spiegare questi risultati contrastanti, alcuni ricercatori si sono concentrati sullo stile della preghiera piuttosto che sulla sua frequenza, scoprendo, ad esempio, che la preghiera meditativa, in cui le persone si concentrano sull’esperienza della presenza di Dio, è associata a effetti più positivi sulla qualità della vita rispetto alla preghiera rituale, in cui vengono lette o recitate preghiere scritte o memorizzate.
Anche l’immagine che le persone hanno di Dio, e quindi il tipo di relazione con il divino che questa immagine modella, influenza il benessere individuale. I primi studi hanno dimostrato che c’è una correlazione positiva tra il benessere e l’immagine di un Dio amorevole, che perdona, che si prende cura e che protegge gli esseri umani.
Altri studi hanno dimostrato che le persone che pregano un Dio che considerano il loro confidente godono di una maggiore felicità e di una migliore qualità delle relazioni coniugali. Altri studi hanno concluso che l’immagine di un Dio amorevole è associata a un minor numero di disturbi mentali, mentre l’immagine di un Dio distante è positivamente correlata a sintomi di psicopatologia. Gli autori fanno notare, tuttavia, che i risultati devono essere interpretati con cautela e che sono necessarie ulteriori ricerche per replicare questi risultati.
I ricercatori hanno comunque scoperto che, al di là dell’immagine di Dio, il tipo di attaccamento alla divinità interferisce con la salute mentale e che, sorprendentemente, questa relazione tra attaccamento a Dio e salute dell’individuo non è lineare.
Gli stili di attaccamento e le loro radici
La teoria dell’attaccamento, sviluppata dallo psichiatra britannico John Bowlby nel 1969 e perfezionata da Mary Ainsworth e altri psicologi negli anni ‘70, è un concetto importante della psicologia dello sviluppo che sottolinea la necessità di avere relazioni strette con altre persone per sviluppare sentimenti di stabilità e sicurezza.
Le prove del ruolo dell’attaccamento emotivo nello sviluppo del bambino sono state osservate e in parte comprese prima di Bowlby da ricercatori o da persone che sono entrate in contatto con bambini privati dell’affetto delle figure di riferimento. Ad esempio, nel 1760 un vescovo spagnolo riferì ai suoi superiori di bambini negli orfanotrofi che, pur avendo soddisfatto i loro bisogni primari, stavano morendo di tristezza. Negli anni ‘30 e ‘40, molti bambini orfani finirono negli ospedali americani, privati del contatto fisico ed emotivo, e il loro tasso di mortalità era elevato. Nel 1937, lo psichiatra David Levi, scrivendo del vuoto emotivo in cui sembravano vivere adolescenti e bambini fisicamente sani ma insensibili e apatici, attribuì queste reazioni alla “fame emotiva”.
Bowlby integrò tutte queste osservazioni e i risultati dei suoi studi in una teoria dell’attaccamento, suggerendo che la deprivazione emotiva precoce e l’attaccamento a persone molto vicine giocano un ruolo fondamentale nello sviluppo della personalità e nella formazione di modelli relazionali che durano tutta la vita. Immaginando un semplice esperimento (vedere come reagivano i bambini di 12-18 mesi quando venivano lasciati soli e poi riuniti alla madre), Bowlby e la ricercatrice Mary Ainsworth osservarono quattro caratteristiche fondamentali dell’attaccamento:
- manteniamo una vicinanza emotiva e fisica con le persone che ci sono vicine;
- utilizziamo le persone a cui siamo legati come rifugio quando ci sentiamo insicuri, turbati o minacciati;
- la nostra figura di attaccamento funge da rete sicura per i nostri bisogni; contiamo sul suo sostegno quando andiamo a esplorare il mondo;
- proviamo tristezza e ansia in assenza della persona a cui siamo legati.
Gli studi di Bowlby sull’attaccamento nell’infanzia hanno gettato le basi per la ricerca sull’attaccamento negli adulti. Da adulti, sviluppiamo il nostro stile di attaccamento, che ci aiuta a creare relazioni, a mantenere l’equilibrio emotivo e ad affrontare lo stress, influenzando così la nostra felicità generale.
Studi più vecchi e più recenti hanno ampliato la teoria dell’attaccamento scoprendo che la relazione uomo-Dio soddisfa i criteri dell’attaccamento (ricerca di vicinanza, rifugio e utilizzo della relazione come base sicura da cui esplorare e affrontare il mondo). Nel 1991, i ricercatori Lee Kirkpatrick e Philip Shaver hanno classificato i partecipanti a uno studio in base al loro stile di attaccamento religioso (sicuro, evitante o ansioso), determinato dall’immagine che si erano fatti di Dio: un essere affettuoso e sensibile, oppure impersonale e distante o inconsistente.
Uno studio pubblicato nel 2018 ha concluso che l’attaccamento sicuro a Dio è legato in modo univoco alla salute mentale. Tre anni dopo, un altro studio ha confermato questo risultato, rivelando una relazione più sfumata tra l’attaccamento a Dio e il disagio mentale rispetto a quanto emerso dalle ricerche precedenti.
Lo stile di attaccamento religioso è correlato alla salute mentale
“La maggior parte delle ricerche sull’attaccamento a Dio ha suggerito una semplice relazione lineare, in cui una relazione meno evitante o sicura è associata a una migliore salute mentale e una relazione più evitante a una peggiore”, afferma il professor Blake Victor Kent, coautore di uno studio che dimostra che la relazione tra attaccamento religioso e benessere mentale assomiglia a una curva a U.
Lo studio, pubblicato sul Journal for the Scientific Study of Religion, si basa sui dati di 1.600 americani (per lo più cristiani) del Baylor Religion Survey, un’indagine sulle credenze e sui comportamenti religiosi degli americani. Gli autori dello studio, i ricercatori Matthew Henderson della Union University e Blake Victor Kent del Westmont College, hanno scoperto che le persone con un attaccamento sicuro (che vedono Dio come coerente e reattivo) e quelle con un attaccamento evitante (che vedono Dio come distante e inaffidabile) sperimentano livelli di stress inferiori rispetto a quelli con un attaccamento ansioso (che mancano di certezza nel loro rapporto con il divino).
Il livello di stress più elevato tra coloro che si trovano nel mezzo, né molto sicuri né molto distanti nel loro rapporto con Dio, è stato l’elemento sorprendente dello studio, con gli autori che sottolineano che l’insicurezza nel rapporto con Dio è una minaccia reale per il benessere mentale.
“Più comprendiamo come ci relazioniamo con Dio e con gli altri, più possiamo essere sani”, conclude Henderson.
I concetti di perdono e sofferenza al centro della giusta immagine di Dio
Secondo Herb Montgomery, fondatore del Renewed Heart Ministries, se si dovesse stilare una classifica dei fattori che modellano in modo significativo la nostra concezione della bontà di Dio, il ruolo divino nella sofferenza umana sarebbe al primo posto, secondo solo al perdono.
Nel suo libro “Finding the Father: See Him for who He Really is”, Montgomery scrive che abbiamo un’idea sbagliata del perdono di Dio e che spesso ciò che ci mette in ginocchio è il nostro senso di colpa, ma anche la sensazione che Dio abbia ritirato la sua bontà da noi e che pregare per il perdono ci aiuterà a riaverla. Se ciò che proviamo fosse reale, la conclusione sarebbe che non è la bontà di Dio che ci spinge al ravvedimento (cfr. Romani 2:4), ma il nostro pentimento che ci porta alla bontà di Dio. Quest’ultima prospettiva non ci aiuta a costruire l’immagine di un Dio immutabile: al contrario, crediamo che egli si avvicini a noi quando confessiamo i nostri peccati e si allontani da noi quando ricadiamo nei nostri vecchi errori. Il risultato è che diventiamo seguaci di una religione che ruota attorno al nostro comportamento.
In realtà, sostiene Montgomery, il perdono biblico non riguarda un cambiamento che avviene in chi perdona, ma un cambiamento che avviene in noi. È Dio che fa il primo passo, è la sua bontà che ci chiama al pentimento e la confessione e la fede sono i mezzi con cui lui ci cambia, non con cui noi cambiamo lui. “La salvezza, contrariamente al cristianesimo popolare, non è convincere Dio a perdonare il nostro peccato, ma piuttosto accettare il suo perdono preventivo”, conclude l’autore.
La sofferenza, l’altro fattore che modella la nostra concezione di Dio, non ha spiegazioni semplici e facili da capire e spesso va e viene senza quel po’ di conforto che le spiegazioni di cui siamo affamati porterebbero. La migliore risposta che possiamo ricevere qui è la Parola fatta carne, che ha preso su di sé i nostri peccati e le nostre sofferenze, così che “in lui la solidarietà di Dio con noi raggiunge il punto di non ritorno”. Assumendo la condizione umana, Gesù rimane umile e ubbidiente fino a raggiungere “la situazione umana più disperata, l’estremo più lontano dal dominio di cui godeva in cielo”, scrive il professor Georges Stéveny, osservando che gli eventi della vita di Gesù ci rivelano non un Dio che incrocia le braccia, ma uno che tende le mani sulla croce.
“La nostra unica speranza di spezzare la presa del peccato è quella di essere esposti a qualcosa di molto più accattivante”, sottolinea il pastore Ty Gibson, parlando del fallimento del tentativo di salvarsi dal peccato concentrandosi sui comportamenti proibiti. Solo la bellezza dell’amore divino può superare il richiamo del peccato, mentre la stigmatizzazione del comportamento peccaminoso porta a ritirarsi in esso sotto la pressione del senso di colpa e dell’impotenza, conclude il pastore.
In questo mondo di peccato, sperimentiamo delusioni, traumi o sofferenze che non possono essere cancellati, ma Dio può fare di più che cancellare il passato. Può scrivere una nuova storia sopra le parole incise nella nostra carne e nella nostra mente, inghiottendo con il suo bagliore l’oscurità di quanto scritto precedentemente. E mentre i capitoli della nuova storia prendono vita, la nostra fiducia in lui diventa sempre più profonda, non perché sappiamo cosa ci riserverà il prossimo capitolo, ma perché il suo autore è Colui che non poteva sopportare di vivere mentre noi morivamo.
Di Carmen Lăiu, redattrice di Signs of the Times Romania e ST Network.
Fonte: https://st.network/analysis/top/how-our-image-of-god-affects-our-mental-health.html
Traduzione: Tiziana Calà