PERCHÉ I NOSTRI RAGAZZI ESCONO DALLA CHIESA?

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Perché i nostri ragazzi escono dalla chiesa? Ecco una delle questioni dolorose che continua a tormentare la realtà della nostra chiesa. È un dato di fatto che la maggior parte delle persone che lasciano la chiesa al giorno d’oggi è in età adolescenziale. Anche quest’anno, durante il consiglio annuale della Conferenza Generale, il segretario G.T. Ng ha ricordato nel suo rapporto che il 63,5% delle persone che lasciano la nostra chiesa lo fa durante l’adolescenza, contro il 35,1% in età adulta. Dal 1965, circa 14 milioni di persone hanno lasciato la chiesa avventista.[1]

Di fronte a questa tragedia, siamo spesso senza risorse, non sappiamo bene cosa fare. Come possiamo riallacciare i rapporti con i giovani? Perché sono usciti dalla chiesa? Che cosa possiamo fare per evitare che altri prendano la stessa direzione? Ecco alcune delle domande che cercheremo di affrontare in questo articolo. Naturalmente non sarà possibile analizzare e definire tutto. Ogni decisione di vita è ricca e complessa, con tante sfaccettature al proprio interno. Ma penso che ci siano più elementi che possono darci spunti di riflessione. Perché sono convinto, e non bisogna essere fatalisti, che c’è ancora qualcosa che possiamo fare. Questa situazione, per quanto grave sia, ci deve servire da spinta per rimetterci in discussione e apportare dei cambiamenti! È quello che ha capito Roger Dudley[2], che ha diretto una grande indagine tra 695 chiese e 1523 adolescenti. Questi sono stati selezionati per rappresentare tutte le regioni degli Stati Uniti e del Canada. Per 10 anni, sono stati sottoposti a un questionario con cadenza annuale. Su 1523 ragazzi, 783 hanno collaborato fino alla fine. Questa indagine ha rivelato i principali fattori nella vita degli adolescenti della nostra chiesa che potrebbero farci immaginare chi sarà ancora presente e attivo nella chiesa tra 10 anni e chi avrà lasciato la comunità o sarà diventato un membro passivo.

Anche se questo studio è stato condotto negli Stati Uniti e nel Canada, i risultati restano universali e di grande attualità per la nostra realtà. Ecco perché ci proponiamo di condividere con voi alcuni di questi risultati[3]; abbiamo anche integrato alcune testimonianze ricevute da Roger Dudley che ci sembravano pertinenti.

La metà dei giovani si disinteressa della chiesa

L’indagine ha rivelato che a 25 anni, il 48% degli adolescenti avventisti avranno lasciato la chiesa o saranno diventati inattivi. Un risultato che ci fa rabbrividire e che purtroppo conferma una realtà alla quale ci dobbiamo tutti confrontare. Ma che cosa fa sì che decidano di lasciare la chiesa?

I nostri giovani se ne vanno perché si sentono degli stranieri e non si sentono integrati. Vivono una grande incoerenza tra i discorsi della chiesa e i suoi comportamenti. A volte vivono l’intolleranza e denunciano quello che sentono essere una certa indulgenza. Puntano il dito contro i conflitti personali presenti tra i membri. È anche importante e interessante notare che ogni volta che si chiede loro perché hanno lasciato la chiesa, non menzionano mai dei motivi dottrinali.

La ragione principale è il sentimento di non essere stati accettati nella loro chiesa. Quando si chiede loro di descrivere la propria chiesa, utilizzano spesso degli aggettivi come “fredda, distante, non cordiale”…

Ecco per esempio la testimonianza di Shirley, 26 anni:

“Possiamo stare seduti sulla panca in chiesa, circondati da tante persone e tuttavia sentirsi ancora più soli che se fossimo seduti in un parco a giocare al solitario. Questa è stata la prima ragione. Poi, mi sono sentita attratta dal Signore e ho ricominciato a frequentare la chiesa avventista; ma ho riperso tutto l’interesse. Ma questa volta c’era un motivo ben preciso: Gesù. Ho bisogno di sentir parlare di Gesù, ho bisogno di sentirmi dire che mi ama; ho bisogno che qualcuno mi ricordi in che modo ha dimostrato il suo amore per me”.

In seguito è stato chiesto loro se dopo che fossero usciti dalla chiesa o che avessero smesso di ricoprire un ruolo attivo all’interno di essa, avessero mai ricevuto:

-una visita del pastore?

-una chiamata dal pastore?

-una chiamata da un membro di chiesa?

– una lettera da qualcuno della chiesa?

Meno del 15% ha risposto di “sì” ad almeno una di queste domande. Questo evidenzia un problema importante. Si rimette in causa la figura del pastore, ma non solo… Abbiamo l’abitudine di andare dal nostro pastore quando ci accorgiamo che qualcuno non viene in chiesa da un po’. Ma spesso ci dimentichiamo che anche noi possiamo metterci in contatto con loro. Pensiamo che non sia un nostro problema o che qualcun’altro lo farà. E purtroppo, cadiamo involontariamente in una situazione simile. Abbiamo mai creato delle relazioni con i giovani della nostra chiesa?

Ecco la testimonianza di Marlène:

“Un sabato, ho letto sul bollettino l’annuncio dei lavori previsti per il giorno seguente. Ho pensato che quella sarebbe stata un’ottima occasione per fare la conoscenza di altri membri di chiesa. Sono arrivata in chiesa con mezz’ora di anticipo, ero così entusiasta all’idea di cominciare! Man mano che i membri sono cominciati ad arrivare, facevo delle domande per capire quale compito avrei dovuto svolgere. Nessuno sembrava volesse il mio aiuto. […] Alla fine, e controvoglia, sono stata mandata a pitturare l’aula e i bagni con altri tre membri di chiesa più grandi.

Gli altri tre, mentre lavoravamo, parlavano, ignorandomi completamente. Ho pitturato in silenzio per sei ore. Sono ritornata a casa estremamente delusa; ho pianto molto quella sera. Però ho continuato a frequentare la chiesa tutti i sabati, anche se mi sentivo sempre più a disagio. Mi guardavo attorno con attenzione, guardavo tutti quei volti familiari che in realtà mi restavano sconosciuti. Anche la donna seduta accanto a me era una sconosciuta. Mi sono alzata e ho lasciato la chiesa piangendo; non ci sono più ritornata”.

I fattori che spingono a tornare

Per fortuna, anche se alcuni giovani e alcune persone lasciano la chiesa, non escludono l’idea di poterci ritornare! Il 15% afferma che verosimilmente ritorneranno, il 26% dice che sarà poco probabile mentre il 33% è titubante. E quando si chiede loro quale fattore potrebbe determinare il loro ritorno, la risposta è sempre la stessa: la fratellanza.

“Una vecchia amica mi ha inviato un biglietto di Natale. È stato l’unico biglietto che ho ricevuto quell’anno. Non mi ha giudicato e non mi ha fatto domande sul perché avevo lasciato la chiesa; non mi sono sentita condannata. È restata molto semplicemente una mia amica”.

È attraverso la nostra amicizia, con chiamate e visite, che potremmo far venire voglia di tornare a quelli che hanno lasciato la chiesa.

I fattori che spingono a restare

Tra coloro che sono stati intervistati, ci sono anche quelli che sono rimasti nella chiesa e che hanno saputo indicarne i motivi. Per una grande maggioranza, il vissuto familiare ha avuto un forte impatto. Non bisogna dimenticare che le tre figure più influenti nella conversione di un giovane sono proprio la madre, il padre e i nonni.[4] Se i genitori sono sposati e sono entrambi avventisti, se frequentano e sono coinvolti attivamente nella vita di chiesa, se a casa si ha un momento di adorazione familiare, allora ci sono più possibilità che i giovani restino nella chiesa.

Gli altri elementi favorevoli che fanno sì che i ragazzi restino in chiesa sono le attività nella chiesa locale che li spinge ad avere una vita personale col Signore. Anche avere degli amici che vivono coerentemente con quello che credono influenza. E per finire, una chiesa che accoglie senza giudicare, più basata sulle relazioni che sulle regole; che è pertinente nei suoi insegnamenti con le realtà della vita di ognuno.

L’indagine ha anche rivelato che la pertinenza della chiesa si misura (secondo loro) con tre dati:

1- l’interesse delle predicazioni del sabato mattina.

2- la soddisfazione dei bisogni spirituali.

3- la soddisfazione dei bisogni sociali.

Quando questi fattori sono soddisfatti, i nostri giovani si sentono sempre più a loro agio e coinvolti nella chiesa. Ecco alcune testimonianze a riguardo:

“La mia chiesa è piena di gente che manifesta un amore cristiano… Insomma, sono tutte delle persone meravigliose”.

“Mi sono sentito accettato. È lì che devo stare, è quello il mio posto”.

“La chiesa, almeno la mia, ha qualcosa da offrire per farmi sentire coinvolto… È bello far parte di una chiesa attiva, che cresce ed è ancora meglio sapere che ho contribuito a fare della chiesa quello che è”.

Quando questi fattori non vengono soddisfatti, dobbiamo ascoltare i nostri giovani perché spesso sono loro a lanciare gli appelli più urgenti. Eccone due a titolo di esempio:

“Quando impareremo? Se il mondo non può trovare Gesù in noi e nelle nostre chiese, dove lo troverà? La nostra religione non si dovrebbe basare sulle regole, ma sulle relazioni. Penso che il Signore sia molto triste quando guarda la condizione attuale della chiesa avventista. Ogni giorno prego per la nostra chiesa; supplico Dio affinché aiuti quelli tra di noi che sono ciechi nel risvegliarsi e nel considerare il raccolto. Prego affinché riusciamo a staccarci dalle nostre comode panche, tipiche di un tradizionalismo freddo e immutabile; che possiamo andare verso i nostri giovani e amarli, amare i loro amici e riportare a Gesù questo mondo caratterizzato dalla solitudine”. -Célèste.

“A prescindere da quello che facciate nella vita, trattate la gente con rispetto. Gli avventisti del settimo giorno possono anche avere la verità, ma ricordatevi che bisogna utilizzarla con gentilezza. Penso che il nostro lavoro consista nel mostrare agli altri come far sì che il Signore entri nelle nostre vite. Lasciamo che sia Lui a preoccuparsi di migliorare il nostro interno, il resto verrà da sé. Voglio che i miei figli frequentino la chiesa e la Scuola del Sabato ma preferirei che avessero una sana relazione col Signore invece di un semplice record di presenze in chiesa”. -Patricia.

Quello che si aspettano e quello che li disturba nella chiesa

Quando si chiede loro quello che si aspettano dalla loro chiesa, ecco i tre aspetti che ritornano ogni volta: fraternità cristiana, nutrimento spirituale, sicurezza e stabilità.

E quando si chiede loro che cosa li disturba di più nella chiesa, ecco le cinque risposte più gettonate:

-Il giudicare.

-La politica amministrativa della chiesa. I procedimenti lenti e spesso mal interpretati che impediscono, secondo loro, la spontaneità e il vissuto spirituale.

-L’ipocrisia e i pettegolezzi.

-Le regole.

-L’atteggiamento “non c’è nessuno meglio di me”. C’è bisogno di autenticità.

Tutti fattori che sapranno risvegliare in noi il nostro vissuto e che dovrebbero aiutarci a rimetterci in discussione.

La chiesa ideale?

Alla fine del suo studio, Roger Dudley cerca di dipingere la chiesa ideale, sempre dalla prospettiva dei ragazzi intervistati.

Amichevole e attenta. Una chiesa affettuosa, dove ci si possa sentire i benvenuti. Con delle persone che si sentono di appartenere a quella chiesa; una grande famiglia caratterizzata dall’amore incondizionato.

Caratterizzata da una profonda spiritualità. Una chiesa che vive realmente una relazione col Signore. Membri che camminano con i giovani e non persone che parlano senza sperimentare niente nella pratica.

Come una famiglia. Una chiesa con dell’interesse gli uni per gli altri. Una chiesa capace di funzionare come una famiglia vera e propria, nella quale c’è rispetto e amore. Una chiesa che si concentri sui figli.

Coinvolta nella società e nella missione. Una chiesa che dà il proprio contributo nella società nella quale si trova; una chiesa che fa degli sforzi per raggiungere le persone che la circondano. Una chiesa che ha un vero e proprio ministero e che non è una fortezza dove barricarsi dentro per non permettere agli altri di entrare.

Un clima di riflessione. Una chiesa capace di rimettersi in discussione, di rimettere in discussione le proprie credenze senza che qualcuno ne resti scioccato. Un luogo dove confrontare e parlare delle varie idee. Dove ci si sente stimolati a condividere, riflettere. Una chiesa che non ha paura di fare delle domande, senza necessariamente dare delle risposte. Una chiesa che sa riconoscere i propri limiti a riguardo. Un luogo dove domina la differenza di pensiero.

Dei giovani coinvolti nella chiesa. Una chiesa dove sempre più giovani adulti svolgano gli incarichi e dove sempre più adulti siano disposti a insegnare a questi giovani, pronti a guidarli nella giusta direzione. “Per un anno ho fatto la studentessa missionaria. […] Mi davano tante responsabilità, a volte troppe! Ma una volta rientrata a casa mi sono sentita improvvisamente inutile all’interno della mia chiesa. Mi aspettavo di avere l’occasione di parlare delle mie esperienze ma, con mia grande delusione, la chiesa mi ha concesso solamente dieci minuti durante la Scuola del Sabato. Alla fine, ho detto che avrei avuto piacere di finire il racconto della mia storia, ma non sono più stata invitata a farlo”. -Sally.

Un culto significativo. Una chiesa con dei programmi soddisfacenti per le persone di tutte le età e provenienza. Con meno tradizionalismo e più apertura nell’accettare le nuove idee, aperta al cambiamento. Una chiesa che dà un senso a quello che fa. Che non risponde con la tipica frase “si è sempre fatto così”.

La diversità. Una chiesa che accoglie persone diverse che si accettano le une con le altre per quello che sono e non per quello che vorrebbero essere

Ecco un piccolo elenco che dovrebbe servire come spunto di riflessione per il vostro gruppo o la vostra chiesa. Tanto più che i nostri giovani hanno più bisogno di autenticità, di persone che vivono con Dio con tutto quello che questo comporta, e non tanto di precetti o di un culto coinvolgente. Hanno bisogno di persone capaci di ammettere le proprie sconfitte; vogliono dei compagni di viaggio e non dei maestri con in mano tutte le risposte possibili.

È proprio quello che ci diceva Philippe Zeissig in uno dei suoi racconti:

“Gli uomini tracciano sul proprio pianeta delle vie di comunicazione sempre più visibili. Per esempio, le autostrade si vedono anche senza percorrerle: sono rese visibili dalle loro opere d’arte che superano con audacia tutti gli ostacoli e dalla loro traiettoria attraverso i campi e i boschi. Prima le strade erano nei paesi; adesso diremmo piuttosto che sono i paesi a stare tra le strade.

Eppure ci sono ancora delle foreste dove, per non perdersi, Pollicino potrebbe spargere i suoi sassolini bianchi. E ci sono ancora delle valli e delle montagne dai sentieri nascosti. Così ben nascosti che li si vede solo quando qualcuno li percorre.

‘Hei, ci dovrebbe essere un sentiero lì! C’è qualcuno che sta salendo!’

Ci sono dei sentieri che diventano visibili solamente perché qualcuno li sta percorrendo.

Nel nostro mondo, chi percorrerà il sentiero della Speranza, affinché riusciamo a vedere che ce n’è davvero uno?”[5]

Ci sembra importante di ricordare un aspetto importante per tutti i genitori che cercano o che hanno cercato di fare del proprio meglio per condividere la loro fede e che, nonostante questo, hanno visto i loro figli prendere una direzione diversa. È importante sapere come e dove dobbiamo lavorare ma è altrettanto importante non colpevolizzarsi. Perché nonostante tutto quello che si può fare, dobbiamo ricordarci che i nostri figli restano liberi di scegliere da soli! Se ci fosse un modo sicuro per far diventare i propri figli dei cristiani, dove sarebbe la loro libertà? Non dimentichiamoci che Dio, il pedagogo perfetto, ha perso un terzo dei suoi angeli. Non è perché un giovane non viene più in chiesa che non ha una relazione col Signore. Ricordiamoci sempre che Gesù si è presentato come un semplice seminatore e chiede anche a noi di seminare soltanto. Lo Spirito Santo farà il resto.

[1] Le statistiche del rapporto di G.T. Ng, segretario della Conferenza Generale, si possono ritrovare su Twitter con l’hashtag: #GCAC17

[2] Sociologo avventista, ha diretto l’Institute of Church Ministry della Andrews University (a Berrien Springs, nel Michigan, Stati Uniti)

[3] Potete trovare lo studio nel seguente libro: Roger L. DUDLEY, V. Bailey GILLESPIE, Valuegenesis: Faith in the Balance, La Sierra University Press, California, 1992.

[4] Secondo lo studio Valuegenesis del 2006, condotto dalla nostra Divisione (EUD).

[5] Philippe ZEISSIG, Une minute pour chaque jour, Ouverture, Olivétan, Opec, Le Mont-sur-Lausanne, Neuchâtel, Lyon, 2013 (1° ed. 1983), p. 9.

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