UN PRIMA E UN DOPO

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Nel 1990 ci fu un prima e un dopo. Prima ero una donna sposata che fingeva di essere felice. Dopo ero divorziata e tutto ciò che normalmente sembrano banalità per me era una montagna da scalare: vestirmi, cucinare, fare la spesa.. Non avevo più voglia di niente. Entrai in ciò che potrei chiamare una malattia della volontà: la depressione. Il mio quotidiano era diventato doloroso e il senso di colpa era cresciuto a livello esponenziale.

Cercai disperatamente aiuto, sia da uno psichiatra che mi proponeva le medicine come unica soluzione, sia nei libri cristiani. Volevo capire la mia malattia per poter combatterla. Ma le mie letture mi dicevano sempre che la depressione era dovuta a una mancanza di Dio nella mia vita. Ora, io mi ritenevo abbastanza vicina a Lui. E quindi più leggevo, più mi sentivo colpevole, e più soffrivo.

Per colpa della vergogna e delle fobie che avevo dentro, cominciai a isolarmi dal mondo esterno, dai miei amici, dalla mia chiesa. Le uniche attività che svolgevo erano andare a mangiare dai miei genitori e badare al mio cane. Il sentimento di inutilità si aggiunse a tutto il resto. Questo durò 3 anni.

Nel 1993, non ne potevo più. Troppo pesante, troppo difficile, troppo inutile, troppo doloroso, troppo vergognoso. Di fronte al troppo, non avevo nessuna speranza. Presi la decisione di metterne fine, per non pensarci più e per non essere fonte di tristezza per i miei genitori. Per due settimane smisi di prendere le medicine. Poi, il giorno X, scrissi una lettere in cui chiedevo scusa. Portai fuori il mio cane per l’ultima volta. Sulla strada per tornare a casa, senza sapere davvero perché, dissi a Dio “Se hai ancora bisogno di me, se hai una benedizione per me, allora manifestati”

Rientrai a casa, mi diressi verso il bagno, alzai le braccia per prendere la scatola delle medicine e, ancora con le mani alzate, suonò il telefono. Erano circa le 22. Nessuno mi chiamava mai così tardi. Credo che se avessi avuto il tempo di prendere la scatola delle medicine, si sarebbe azionato l’ingranaggio e non avrei potuto rispondere al telefono. Fu il primo segnale di risposta di Dio alla mia preghiera. Quella sera, sentii veramente che Dio aveva bisogno di me. Questa manciata di speranza non mi lasciò mai. Nonostante non fossi guarita e la mia lotta continuasse.

Poco a poco, Dio mise sul mio cammino delle persone e delle opportunità e addirittura mi ridiede degli amici e un lavoro. Il mio stato mentale era ancora instabile e fragile. Avanzavo con Dio ma sapevo che mi trovavo sul filo di un rasoio. Alla minima difficoltà, tutto poteva cedere.

E in effetti, una prova sul lavoro mi fece cadere di nuovo in basso. Dovetti rinunciare al mio impiego. Vidi che stavo facendo dei passi indietro, e tornavo alla stessa situazione di prima. Questo pensiero era insopportabile per me. Decisi nuovamente di farla finita con la mia vita e questa volta passai all’azione. Nel natale del 2006, incartai i miei regali, scrissi nuovamente una lettera di scuse ai miei genitori, inghiottii le medicine che provocarono una cattiva reazione e vomitai tutto. Completamente stordita, rimasi sdraiata a casa mia. Non avendo mie notizie, mio padre venne a casa a cercarmi. Quando aprì la porta, i nostri sguardi si incrociarono, e capì immediatamente cosa aveva fatto. Io capii che non avrei mai più voluto far soffrire i mie genitori tentando di togliermi la vita.

Negli anni successivi ricevetti nuovamente le cure da parte di un medico, di altro psichiatra dai metodo più adatti al mio caso. Ritrovai la pace ricopiando tutti i salmi. L’esperienza di Davide mi parlava e mi faceva del bene. Poi, capii il versetto che dice che quando sono debole, allora sono forte. Ogni volta che si presenta una situazione difficile per me, chiedo a Dio di stare con me e guidarmi. E lo fa! Sento la Sua presenza. Per esempio, quando devo parlare con qualcuno ma non trovo la forza di alzare la cornetta del telefono, Dio fa in modo che la incontri per strada, così, per caso. È successo un sacco di volte. Dio è la mia forza, agisce in mio favore.

Dieci anni dopo, i miei problemi non si sono risolti. Ma ho progredito, perché Dio è la mia forza.

Dalla mia esperienza, se ne posso trarre un consiglio, è quello di prendere sul serio ogni tentativo di suicidio. Sono tutte manifestazioni di un profondo e insopportabile dolore. Le persone che provano a togliersi la vita non “giocano”. Al contrario, cercano una scappatoia, una liberazione. Alcuni hanno la tendenza a pensare che i tentati suicidi siano delle “semplici” richieste d’aiuto. Questa definizione può ferire la persona in sofferenza e farla sprofondare in un abisso ancora più profondo, poiché si riduce e si minimizza il malessere provato. Aumenta ancora di più il divario tra l’individuo e la società. Impariamo a riconoscere e a chiamare per nome la sofferenza. A volte, è il primo passo verso la guarigione.

“Ecco, io faccio una cosa nuova; essa germoglierà; non la riconoscerete voi? Sì, aprirò una strada nel deserto, farò scorrere fiumi nella solitudine” (Isaia 43:19).

IL SUICIDIO DA UNA PROSPETTIVA BIBLICA
Omaggio a Esther Etienne

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