IL DIKTAT DELLA FELICITÀ

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Anche la sofferenza fa parte della crescita personale

A volte ho l’impressione che la società, con i suoi continui cambiamenti e l’incertezza con cui vengono introdotti i valori, che possono anche essere destituiti, è così sproporzionata che in alcuni momenti sfiora l’incoerenza.

Parlando di salute, questo aspetto è ancora più evidente. Viviamo in un’epoca in cui l’interesse per vivere in buona salute è sempre in crescita, diventando un argomento di grande notorietà. Se da una parte tutto questo è positivo, visto che la circolazione di informazioni e di contenuti riguardanti la salute può aiutare le persone a gestire meglio il proprio benessere, dall’altra parte troviamo gli eccessi. Sforzandosi troppo di mantenere la salute, si può anche arrivare a perderla.

Per esempio assistiamo sempre di più a una confusione tra salute e bellezza. Utilizzando queste due parole come sinonimi, entrambe perdono parte del proprio significato in favore dell’altra. Questo aspetto si vede in coloro che valutano la propria salute in funzione dei muscoli e che, a causa del proprio patrimonio genetico, si trovano a dover ricorrere a sostanze di cui si conoscono i risultati promessi ma non tanto le conseguenze. Il grande aumento degli interventi di chirurgia estetica è la prova di quelle situazioni in cui, sempre nel tentativo di migliorare la propria vita, se ne sacrifica un po’.

Questi esempi non sono validi unicamente nell’ambito dell’estetica. Si punta sempre di più sulla salute come fonte di felicità; questo significa che le persone felici della nostra epoca, oltre a essere belle, sono in buona salute e viceversa.

Se la felicità è l’obiettivo della vita, allora poco importa come o con chi, quello che conta è essere felici. Si arriva a dimenticare che la sofferenza e le difficoltà sono delle componenti dell’esistenza umana. Eppure siamo pronti a tutto pur di non soffrire.

Spesso rimesso in questione, il DSM 5 (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) ha ricevuto numerose critiche per aver affermato che il lutto, oltre le due settimane di tempo, può indicare sintomi di depressione e dovrebbe quindi essere curato. Ma chi non piange più di due settimane dopo aver perso una persona cara? Se esiste una data di scadenza per il lutto, il numero delle malattie aumenta in maniera esponenziale.

Mi ricordo che da piccola erano rari i bambini che avevano bisogno di un accompagnamento psicologico o di una cura medica. Oggi, invece, solo un piccolo numero di bambini non rientra nel profilo DDAI (Disturbi di deficit di attenzione e iperattività)

Non è un caso che, secondo le agenzie farmaceutiche di alcuni paesi, la vendita del metilfenidato cloridrato per bambini e adolescenti tra i 6 e i 16 anni, prescritto per la cura contro i DDAI, è aumentata del 75% tra il 2009 e il 2011.

Non pretendo di rimettere in discussione queste diagnosi, anche semplicemente perché non sono un medico; ma vorrei invitarvi a riflettere insieme. Penso che le persone che soffrono di depressione, così come i bambini che hanno un deficit di concentrazione, abbiano realmente bisogno di una cura. Quello che mi chiedo è se la nostra società sta davvero affrontando un boom di malattie o se il diktat della felicità ci presenta dei modelli irreali di normalità. Mi chiedo se stiamo affrontando “un’epidemia” di narcisisti o se facciamo esercizio fisico per raggiungere uno stile di vita più sano; e così via…

Quando imponiamo la felicità, non rubiamo al tempo stesso una parte della vita? Le esperienze che ci fanno soffrire non ci rendono più umani? Gli eccessi in nome della vita, spesso di una vita finta e artefatta, non mettono a tacere la vera felicità? Come dire alle generazioni future che anche la sofferenza fa parte della crescita personale?

Un estratto del libro “Heureux ceux qui” (letteralmente Felici coloro che) mi ha colpito; e dice così: “Le prove della vita sono i mezzi di cui Dio si serve per formare e trasformare il nostro carattere. È doloroso essere tagliati, affinati, scolpiti, modellati, levigati e formati da queste esperienze; ma è solo così che possiamo diventare una pietra vivente e autentica nella Chiesa del Signore. I materiali comuni non sono oggetto di attenzioni e cure minuziose, solo le pietre scelte sono degne di essere utilizzate per la costruzione di un palazzo”.

Agatha Lemos, editor associato della rivista Vie et Santé

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